5. Hit.

28 3 2
                                    

Quel letto d'ospedale era sempre lo stesso noioso letto che dopo aver posato il mio peso su di esso faceva perdere la voglia in me di restarci sdraiato per ancora un po' di tempo. La porta si apriva ogni tre ore contate, da cui spuntavano le depresse "ciabatte" da dottori. In partenza dovevano essere utilizzate nei laboratori, cosa alquanto sbagliata. Erano di plastica/gomma, non potevano assolutamente essere adatte per laboratori in cui si facevano esperimenti di ogni tipo, a volte anche esperimenti stupidi, in cui versavano qualcosa su un'altra sostanza, con la speranza che fruttino qualcosa di interessante o nuovo, che in ogni modo, nella loro assurda cassa cranica, possa dipingersi un futuro migliore per questo mondo abitato da ratti e feccia. Poi ovviamente tutto va a finire nel piccolo corpicino dei topolini bianchi. Provavo compassione per quelle piccole creature innocue, che non avevano il diritto di parola perché non potevano appunto formulare parole. Me li immaginavo, quei topi, se fossero stati parlanti. Sarebbe stato elettrizante sentirli gridare, lamentarsi per gli effetti di quelle strane miscele e composti, per alcuni, invece, poteva essere straziante sentire la disperazione nella voce di qualcuno. Non ero sadico, volevo solo divertirmi in tutti i modi possibili, potevo divertirmi in modo passivo, tipo ascoltando qualcosa con le mie orecchie senza muovere un dito o sbattere un occhio. Joshua Dun stava tardando come mai aveva fatto in quei giorni. In quel piccolo arco di tempo capii che amava fare le cose con calma, non voleva correre, poteva far aspettare il suo arrivo in eternità, ma veniva lo stesso. Non mancava mai. Mi aveva detto che veniva alle tre e quindici, e invece in quel momento erano le tre e cinquantasei. Quel ragazzo era assurdo. Le mie palpebre stavano calando e Morfeo stava per trascinarmi tra le sue braccia, ma mi "svegliai" all'improvviso quando Josh fece finalmente irruzione nella mia stanza d'ospedale.
«Scusami tanto» disse lui, con la fronte sudata e i capelli di un rosso sbiadito dal tempo, attaccati ad essa. Si sedette accanto a me e rivolse lo sguardo al cielo privo di stelle al di lá del vetro della finestra. Guardai il disappunto nei suoi occhi, quella luce gioiosa che a volte attraversava i suoi occhi non c'era, proprio come quelle stelle e quella triste luna calante che stava per essere coperta dalle nuvole. Poi i suoi occhi si posarono sui miei e prima di spostare in fretta lo sguardo ebbi l'occasione di vedere quella luce formarsi e le pupille dilatarsi, come se io fossi una delle sue spade dei personaggi del "Signore degli anelli". Le collezionava, mi disse. In uno strano e spaventoso modo, i suoi occhi che guardavano i miei mi piacevano come non mai, volevo guardarli per tutta la notte, quei occhi pieni di stellare gioia. Già, stellare, strano modo di descrivere la gioia. Gli occhi di Josh per me erano un universo pieno di galassie e stelle di tutti i tipi, che appena mi guardavano, splendevano come non mai, come se io fossi il sole. Ma io non ero affatto il sole, non ero felice, e presupponevo che il sole fosse per persone felici, quindi ero la luna. Decisamente la luna. Ora guardavo la coperta e adesso il tavolino ai piedi del letto, su cui mettevano vassoi colmi di piatti contenenti cibi che non avevano nessun sapore. Sussultai quando sentii la sua mano posarsi sulle bende e accarezzare il tessuto, come se in qualche modo avrebbe velocizzato la guarigione delle ferita che mi ero inflitto. Mi venne in mente qualcosa da chiedergli, dopo quella manciata di minuti in cui regnava un pacifico silenzio.
«Uhm... cosa intendevi con "capisco cosa si prova"?» chiesi, curioso, mettendomi più drittamente seduto.
«Ci sono cose che non sono fatte per essere dette». Fece una pausa in cui si avvicinò maggiormente a me per non cadere dal letto e si mise semi sdraiato. «So che non capisci cosa ti sto dicendo e quello che starò per dirti ti confonderà ancora di più. Devi cercare bene delle cose che sono nascoste nella tua mente, ci devi letteralmente annegare, e solo dopo che avrai capito, io svelerò le soluzioni ai tuoi dubbi». Non ero mai stato più confuso di così. Non capivo cosa intendeva dire, tutto quello mi sembrava uno di quei casi enigmistici che dovevo risolvere nel giochino del nintendo, oppure quelle piccole cose che cercavo di capire prima che Sherlock scoccasse il suo sguardo freddo su Watson, dicendo velocemente ciò che aveva capito, prima di me, che dietro allo schermo della televisione imprecavo. Gli avrei chiesto di essere più preciso, ma sapevo che avrebbe confuso ancora di più le poche idee che mi ero fatto. Odiavo non sapere.
«Uhm... okay» dissi soltanto, in modo incerto e lo guardai di nuovo. Quando lo vidi così vicino a me, il mio cuore iniziò a martellare senza sosta nella grande cassa toracica e improvvisamente smisi di pensare a ciò che mi aveva detto. Era sicuramente quella cosa della solitudine, insomma, non ero gay o cose del genere, solo, non ero abituato ad avere altri esseri umani vicino a me. Qualcuno si sarebbe chiesto se uno come me avesse dei sentimenti. Credevo di averli. Provavo attrazione per una ragazza dai capelli biondi, Jenna, si chiamava. Credevo di avere problemi, insomma, mi piacevano sempre quelle che mi ignoravano o mi trattavano male. Sospettavo di essere affetto da un forte concentrato di masochismo. Temevo che il martellare del mio cuore si potesse sentire, e quando Josh se ne accorse, a giudicare dal suo sguardo, volli cadere in una buca molto profonda e non uscirne mai più.
«Che hai?» chiese corrugando le sopracciglia e guardandomi dubbioso.
«Nulla» dissi subito, e infatti non sembrava affatto convinto.

Blurryface wants to kill you ||| sospesa.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora