2. White

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Respiravo pesantemente, sentivo un eccessivo calore diffondersi nel mio corpo, ero sicuro di essere rosso in viso, stavo andando in iperventilazione. Il cappellino di lana mi faceva sudare e sentire più caldo del dovuto, quindi lo tolsi, lo piegai e lo misi in tasca. Mi passai una mano tra i capelli corti, scuri e in quel momento bagnati, per sistemarli, sapendo che avevano preso una brutta forma. Mi accaldavo quasi sempre appena entravo nel Game Stop, però, la presenza di quel ragazzo peggiorava la mia condizione. Mi sentivo andare a fuoco, letteralmente. Il fatto di essere in compagnia di qualcuno di mio gradimento era insolito ed emozionante, e il fatto che non dovevo assolutamente parlargli stava diventando in qualche modo eccitante. Eccitante ma sbagliato. Il rischio e il proibito erano qualcosa che mi affascinava, fare qualcosa che il mio io era consapevole fosse vietato fare mi rendeva in qualche modo soddisfatto, tant'è che mi cacciavo sempre in qualche guaio per sentire il disastro affievolarsi e farsi piacevole nella mia mente. C'era un lato di me, che se dominava sull'altro poteva portarmi alla rovina. Ma chi ci pensava più al rischio del collasso totale? Mi potevo concedere di perdermi e affogare nelle profondità delle parti più buie e contorte della mia mente. Potevo lasciarmi trascinare via dai demoni che vivevano nella mia psiche e si nutrivano della mia negatività, potevo lasciar che facessero quel che volevano alla mia vita e alla mia sporca e bastarda anima.
«Comunque sono Josh» disse il ragazzo che ora aveva aquisito un nome.
«Non te l'ho chiesto» dissi atono, un contrasto alla mia condizione fisica. Spostai subito lo sguardo su Josh, ero curioso di sapere come avrebbe reagito. Era intento a fissare con apatia un gioco per l'xbox che teneva in mano. Stava impedendo con tutte le forze alla sua espressione di farsi più triste o arrabbiata, ne ero certo. In tutti quei diciannove anni della mia vita in cui rimasi nella mia lenta e divoratrice solitudine, avevo imparato ad osservare e capire le persone in lontananza, seduto su un muretto con le Marlboro rosse tra le dita. Il pianeta Terra continuava a girare, la mia vita sfrecciava davanti ai miei occhi come un treno senza freni, e io continuavo a starmene in un pallido torpore, dove regnava incontrastatamente la monotonia. Serviva una svolta per sviare la direzione del treno e farlo schiantare contro una superficie rocciosa, solo così poteva fermarsi.
«Okay okay, non farmi quella faccia. Io sono Tyler» glielo concessi e mi avvicinai maggiormente a lui, osservai la sua espressione farsi meno dura e nel mentre sfilai dalle sue mani quella scatoletta. «Non è bello. Prova con Silent Hill» dissi in tono di voce basso, mancava poco al sussurro. Presi dallo scaffale pieno il gioco che nominai e glielo porsi senza essere rude come era mio solito fare.
«Infermiere eccitanti senza faccia e con il camice sporco di sangue che vogliono uccidere. Ti piacerà» mormorai allo stesso tono scrutando ogni suo minimo movimento, mi piaceva osservarlo. Guardai la sua mano avvicinarsi al gioco, studiai con che modo le sue dita lo avvolsero e come ruotava il polso per girarlo, leggere e vedere le immagini e i diversi info sulla parte posteriore.
«S-sembra interessante» disse balbettando. Aveva balbettato molto spesso quando prima mi parlò, il che mi fece pensare che non fosse un tipo sicuro di se'.
Ci diressimo alla cassa e quando Josh finì di pagare uscimmo fuori. Sospirai sollevato nel sentire l'aria fresca accarezzarmi i capelli e mi girai verso il ragazzo dai capelli rossi.
«Vai nella mia stessa scuola?» chiesi, curioso, non lo avevo mai visto prima, e quando dicevo di non aver mai visto qualcuno era davvero così, io ero più attento di una guardia notturna e avevo il cosidetto "occhio di falco", potevo notare cose che non erano facili da notare.
«Sì» mi guardò incerto Josh.
«Strano, non ti ho mai visto.»
Fece un verso simile a un "eh" e gli rivolsi uno sguardo torvo, volevo sapere.
«Sto s-sempre in classe» disse prendendosi una mano e giocandoci nervosamente, tirando, pizzicando, graffiando, torturando la pelle del dorso. Sapevo che non era così, anche un ceco poteva saperlo, anzi, no, meglio un sordo, decisamente, balbettava e aveva quel tono insicuro anche quando era sicuro.
Feci finta di crederci e senza rivolgerci parola ci dirigemmo all'istituto. Mi salutò con la mano e salì le scale, mentre io mi diressi alla mia classe che stava al piano terra. La mattinata corse, passò in fretta e la mia mente era altrove, in un posto sicuramente migliore di quello in cui ero fisicamente. Pensavo di essermi fatto un amico, quei minuti di silenzio mi erano serviti per far crollare i muri di sicurezza che circondavano la mia psiche. Lui non era un amico, non doveva, non poteva esserlo, non lo sarà mai. Non dovevo farlo entrare nella mia vita, nel mio videogame, nelle mie vene, era una potente sanguisuga, risucchiava tutte le mie emozioni felici e non felici in poco tempo, anche se erano di un numero davvero molto ridotto, non provavo molto spesso delle emozioni, specialmente felici. Anche se uno come me non sapeva dell'esistenza della felicità, non quella momentanea che provavo appena installavo e giocavo a un videogame sul computer ma quella duratura, quella vera. Dovevo allontanarlo, anche contro la sua volontà. Gli avrei fatto vedere il peggio di me, o semplicemente lo avrei evitato. Corsi praticamente fuori scuola appena suonò la campanella, i miei passi erano affrettati e il mio cuore martellava incessamente nel petto, come se volesse uscire fuori e pestarmi fino al sangue che aveva pompato lui stesso. Corsi a casa e bussai violentemente sul duro legno della porta pitturata di bianco e la guardai aprirsi dopo pochi minuti. Guardai mia madre con il fiatone, se ne stava lì impalata con lo sguardo interrogativo e le mani a prendersi i fianchi. Oh no, in quella posizione non mi piaceva parlarle, non potevo mentirle se stava in quel modo, non sapevo perché, forse era una cosa psicologica.
«Sono passato per i giardinetti e un gruppo di ragazzi volevano rubare le mie cose e picchiarmi, io lo so» dissi con voce tremante e gli occhi allarmati, guardandola fisso nelle pupille. Come ogni volta, riuscii a fingere con successo. Mi fece entrare e chiuse la porta, andò in cucina e la seguii.
«Ti ho detto tante volte di non andare lì ma non mi ascolti mai» disse lei, intenta a riempire d'acqua il bollitore.
«Sì okay mi dispiace» dissi velocemente passandomi la mano sulla nuca. L'atteggiamento della donna non mi andava giù, la stava prendendo con una totale e fastidiosa indifferenza, come se non le importasse di me, come se non le sarebbe importato se fosse successo davvero. Forse erano solo mie impressioni, poteva saper fingere di essere indifferente. Speravo che fosse così. Se questa cosa fosse successa qualche anno fa le avrei chiesto se le importasse del suo unico figlio, ma in quel momento me ne stetti in silenzio, non mi importava più come prima avere la sua attenzione e approvazione. Ricevetti una tazza blu di tè fumante e la fissai a lungo dopo aver avvolto le dita al manico. Fissavo l'acqua calda e scura con occhi sgranati, mi ero incantato, mi incantavo spesso, anche quando non pensavo a niente, e in quel momento stavo pensando a una canzone che mi dava il tormento. Solo quando la sentii sbuffare e uscire dalla cucina tornai nella realtà, la seguii con lo sguardo e poi tornai a fissare la tazza. Non capivo cosa le aveva dato fastidio, davvero, non avevo fatto assolutamente niente. Soffiai sul tè e poi lo bevvi in fretta, scottava davvero tanto ma volevo soffrire. Mi alzai con calma e presi lo zaino in mano, lo portai su per le scale e mi diressi in soffitta. Chiusi bene la porta dietro di me e mi avvicinai alla piccola finestrella, mi sedetti a terra, sul legno, e guardai fuori, aspettando che mia madre se ne andasse via per andare a lavoro. Qualcuno si poteva chiedere se avevo un padre. Ovviamente ce l'avevo, ma il mio sfortunato destino volle allontanarlo da me, o forse era lui che volle allontanarsi. Sapevo che era andato in Germania per lavoro, ovviamente lo sapevo. Quando partì avevo tredici anni, nei primi mesi andava tutto bene, ci chiamava, facevamo videochiamate, ci mandava soldi, ma poi nulla. Non si fece più sentire, cessò di esistere nella mia coscienza e nel mio presente. Nessuno sapeva più nulla di lui. Non sapevo più se era morto o vivo, o semplicemente ci stava rimpiazzando con un'altra donna e un altro figlio. Però, io pensavo sempre al peggio, pensavo che forse l'avessero rapito e ucciso, oppure... Toc. Quel dannato rumore spezzò il mio filo logico, e diamine, volevo pensare alle possibili morti che poteva aver subito mio padre. Nel momento in cui mi girai sentii il famigliare motore della macchina di mia madre e la ghiaia schricchiolare sotto le ruote, se n'era andata, finalmente, potevo fare qualsiasi cosa. Mi allontanai dalla piccola finestra per vedere cosa avesse generato quel rumore e camminai lentamente intorno agli oggetti appoggiati sul pavimento e sui muri, si trattava di cose vecchie. Non c'era niente, ma i dubbi cominciarono a farsi più forti della ragione. Poteva essere lui. Poteva essere tornato dal suo regno di castelli di carte e pugnali, bagnati del mio sangue e quello delle persone a cui voglio bene. Presi il mio zaino e mi sedetti nuovamente a terra, incrociai le gambe e aprii la zip. Guardai all'interno dello zaino, all'apparenza c'erano solo libri, quaderni e un astuccio, ma quando infilai le dita in una parte strappata al suo interno tirai fuori una piccola bustina trasparente con all'interno quella che sembrava una polverina bianca. Era la mia salvezza. La porta d'uscita che mi si parava davanti quando ne avevo bisogno. Strappai un pezzo di carta e lo misi su un tavolino, quel tavolino testimone di tanti episodi come quelli. Rovesciai il contenuto della bustina sul tavolo e lo divisi in cinque strisce sottili con l'aiuto dell'estremità del foglietto. Arrotolai quest'ultimo e lo avvicinai a una narice, iniziai a tirare su col naso, sentivo un bruciore ardente, non sniffavo da tanto tempo, ovvero, due settimane fa. Strizzai gli occhi mentre sentivo l'effetto invadere lentamente il mio corpo e la mia mente. Preso da quella piacevole sensazione sniffai quattro strisce intere senza mai darmi tregua. Mi alzai di scatto e mi avvicinai a passo svelto alla porta, ma improvvisamente sbattei contro qualcosa di morbido e duro allo stesso tempo. Mi sbilanciai e caddi all'indietro, mi arressi a una lampada e me la portai appresso durante la caduta. Imprecai, anche se non capivo bene cosa stava succedendo e aprii gli occhi. Guardai in alto e vidi Josh dai capelli rossi. Accanto a lui c'era qualcun altro, non riuscivo a vedere chi era, la sua figura era confusa, come se fosse un ombra dalla sagoma delineata.
«C-che cazzo ci fai qui?» gli chiesi cercando di alzarmi da quel trambusto che generai cadendo. I miei occhi si spostavano da Josh allo sconosciuto. Più guardavo quest'ultimo e più diventava meno visibile.
«Mi annoiavo» disse soltanto il tinto e mi porse la mano per aiutarmi. Presi la sua mano e lasciai che mi aiutasse, infatti mi tirò su con facilità. Istintivamente guardai i suoi bicipiti e mi accorsi solo in quel momento che aveva più muscoli di me. Mi accorsi di starlo fissando troppo solo quando tossì e risi senza un reale motivo.
«Chi è?» chiesi ridendo, riferendomi alla persona che stava accanto a lui e che ora sembrava essere sparita.
Josh si accigliò e guardò affianco a se' e si girò, si guardò intorno e poi tornò a guardare me. «Chi è chi?»
«Ti giuro che stava accanto a te» rabbrividii come non mai.
«È la cocaina, Tyler»
Il mio nome detto da lui suonava come una melodia meravigliosa, giurai di non aver mai sentito qualcosa di così bello. Non sapevo perché mi faceva questo effetto, forse erano gli stupefacenti. Non sentivo più la forza nelle gambe, così, mi buttai a terra e appoggiai la schiena contro il muro. Vidi Josh ridere e andare verso il tavolino dove c'era una striscia che avevo lasciato, si chinò e arrotolò il pezzo di carta. «Voglio vedere anche io quel qualcuno» mormorò prima di iniziare a sniffare tutta la striscia. Inspirò e si andò a sedere vicino a me, sembrava più rilassato, non aveva quell'espressione da ansia costante.
«Non vedo niente» disse a voce sorprendentemente alta, con la mascella serrata, e prese una lampada. Sussultai quando la lanciò con rabbia contro il muro opposto, frantumandola in mille pezzi. Era più strano di quanto pensassi.
«Calmati» dissi in tono pacifico, mettendo una mano sulla sua spalla, non ci capivo nulla ma sapevo che doveva tranquillizarsi.
«Bugiardo!» urlò e mi andò addosso, spingendomi violentemente a terra, mettedomi sotto di lui. Portò una mano intorno al mio collo e lo strinse, mi sentii mancare l'aria, il mio cuore iniziò a battere ferocemente contro il petto. Misi una mano intorno al suo polso e lo strinsi, cercando di allontanarlo. «Cazzo... lasciami s-stare» dissi a fatica, con voce debole, stavo per morire soffocato, che morte ridicola. Josh mi guardò con quei occhi furenti che piano piano si stavano addolcendo. Facevo così tanta pena? Per fortuna alleggerì la presa e io ebbi l'occasione di dargli una ginocchiata allo stomaco. Si piegò in due, tenendosi la pancia e approfittandomi della situazione lo spinsi lontano da me, misi le dita tra i suoi capelli e li tirai, costringendolo ad alzare la testa e guardarmi.
«Con me non si fa così. Non sai chi diamine sono» gli sussurrai con tono duro, a pochi centimetri dal suo viso e lasciai la presa solo per sferrargli un forte pugno vicino al naso. Lo sentii spezzarsi sotto le mie nocche e un sorriso compiaciuto si dipinse sul mio viso. Mi limitai a quel pugno anche se potevo fare di peggio, ma in contrario suo io mi sapevo controllare. Non interamente io, ma il mio io noiosamente buono. La parte morbosa di me tardava ad arrivare. Aveva un nome, ma non era fatto per essere rilevato.

Blurryface wants to kill you ||| sospesa.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora