Capitolo uno

6 0 1
                                    

L'iPhone prese improvvisamente vita col suo solito, odioso e martellante motivetto sincopato.
Mi strinsi nel cuscino, quindi imprecai sottovoce, e lanciai un paio di maledizioni contro il dannato strumento. Naturalmente non servì a niente. Fedele al compito che io stessa gli avevo dato la sera prima, la sveglia dello smartphone continuò, imperterrita, a richiamarmi al dovere.
Alla fine mi arresi e aprii gli occhi: erano le nove in punto! Lì per lì non ricordai perché avevo puntato la sveglia a quell'orario così strano.
Un attimo, uno soltanto di beata incoscienza, poi mi tornò in mente: Miss McEvan, la mia arcigna professoressa di biologia, era a letto con l'influenza. Quella mattina, di conseguenza, l'entrata a scuola era stata eccezionalmente posticipata alle dieci.
Confesso che lì per lì fui tentata di restare ancora un po' sotto le lenzuola! Durò poco: il mio maledetto senso del dovere, come un sergente dei Marines duro e senza cuore, mi ordinò di alzarmi immediatamente. Seduta sul letto, le gambe penzoloni e svogliate, invidiai con tutto il cuore il mio amico Fred che non aveva obblighi scolastici.
Anche perché avete mai visto un orsacchiotto di peluche andare a scuola? Certo che no. Fred, in effetti, non faceva eccezione: lui doveva solo fare compagnia per la notte a una diciassettenne un po' paurosa e parecchio romantica. Un compito che, fin da quando ero una bimba che si succhiava il pollice, il mio amico peloso aveva portato a termine alla perfezione.
Ancora assonnata scesi in cucina per prepararmi la colazione. La casa era immersa nel silenzio: a quell'ora, infatti, Ellison – la mia amata sorellina – si trovava già a scuola, mamma e papà al lavoro. Mentre aspettavo che l'acqua per il tè bollisse, presi la tovaglietta con sopra disegnato Winnie the Pooh – dalla quale non riuscivo proprio a separarmi –, uno scottex, lo zucchero, il cucchiaio, i biscotti ai cereali dalla dispensa e apparecchiai il tavolo di legno.
Quando l'acqua bollì, la versai nella mia amata tazza di colore giallo, presi la bustina di tè al limone e aspettai la sua infusione. Nell'attesa sbirciai fuori dalla finestra: il pallido sole di dicembre si era appena levato e illuminava il giardino e la strada, facendoli brillare sotto i suoi deboli raggi. Mi sentivo felice: manca- vano tre settimane a Natale e a North Berwick, due giorni prima, era caduta la neve. Un evento che capitava non più di due o tre volte volte ogni dieci anni.
Forse era anche per questo che amavo moltissimo quella coltre candida che, come un manto impalpabile, aveva ricoperto il paese e la campagna circostante. Dietro la finestra tutto mi sembrava bellissimo. Il quartiere, situato in una zona residenziale, era vestito di bianco e scintillava come un cristallo sotto i raggi di un sole pallido. Doveva far freddo, a giudicare dalla fretta con cui due signore con le sporte piene di spesa, si dirigevano verso la propria casa.
Un quartiere tranquillo, ma dove si sapeva tutto di tutti e il pettegolezzo era lo sport più praticato. A me, tutto sommato, non importava più di tanto: la mia vita, infatti, forniva ben poco materiale da discussione anche alle lingue più taglienti e maligne.
Assaporai fino in fondo i cinque minuti della colazione. Sola, seduta davanti a tavolo, col profumo di tè e di biscotti e, fuori, la campagna scozzese imbiancata di neve. Mi sentivo addosso un'energia formidabile. Altro che i breakfast consumati di corsa allo Starbucks Co ee o davanti alle infernali macchinette della St. Bartholomew School!
Alla fine infilai la tazza e il cucchiaio nella lavastoviglie e sparecchiai. Andai in bagno a rinfrescarmi per poi raggiungere la mia camera. Rifeci velocemente il letto e sistemai Fred sulla poltrona color rubino, accanto al mobile di legno bianco.
Era così giunto il momento di vestirsi. A differenza di mamma, in effetti, a me la moda m'interessava fino a un certo punto. I miei vestiti dovevano essere più pratici che belli, più pratici che eleganti. Tanto, poi, chi mi avrebbe guardata?
Fu così che indossai il primo paio di jeans che mi capitò a tiro e un maglione di lana a collo alto di colore nero, m'infilai gli anfibi viola – i miei preferiti – e mi coprii col piumino azzurro dell'anno precedente. Infine, sistemata alla me- glio la mia chioma fulva, mi calai in testa un cappello di lana, senza tuttavia dimenticare sciarpa e guanti. Afferrai il mio zaino blu, accesi l'iPod che tenevo in tasca con una cuffia sull'orecchio e l'altra penzoloni e, finalmente, uscii di casa.
L'aria era davvero gelida, ma a me non dava fastidio. Quella mattina, infatti, mi sentivo leggera e felice. Il Natale alle porte e la magia della neve erano due medicine formidabili per il mio umore quasi sempre storto. M'incamminai sulla stretta strada che conduceva a scuola, canticchiando sottovoce Summer of '69 di uno scatenato Brian Adams. La passione di papà.
Sui marciapiedi, ai lati della via, si erano già formate delle pericolose lastre di ghiaccio, così mi spostai verso il centro della carreggiata. Non avevo paura di essere investita: le macchine, da lì, ci passavano molto raramente. Si trattava infatti di una via secondaria, poco frequentata anche all'ora di punta. Figuriamoci di primo mattino e dopo una nevicata di quella portata!
Quella mattina, però, le cose presero un verso inaspettato. A un tratto, infatti, mentre camminavo, un potente rombo alle mie spalle sovrastò la voce roca di Brian. Mi girai e, con terrore, vidi una macchina di colore scuro diretta a tutta velocità proprio verso di me. Lì per lì non riuscii a formulare un pensiero coerente, a parte convincermi che sarei stata spazzata via come un fuscello. Agii d'istinto: mi gettai sul marciapiede, mentre un terribile stridio di freni squarciava l'aria immobile per il gelo.
Un attimo dopo ero distesa sull'asfalto ghiacciato, con un terribile dolore al fianco. Dietro di me il rumore di una porta che sbatteva e passi trafelati che si avvicinavano.
«Ehi, ragazza! Non ti muovere! Ora chiamo un'ambulanza». La voce maschile era allarmata.
Mi sollevai appena e quando riaprii gli occhi la prima cosa che vidi furono dei grossi pneumatici neri con, in bella evidenza, la scritta PORSCHE.
Mi venne quasi da ridere. "Diavolo" pensai "se non altro stavo per essere ammazzata da un'auto di lusso". Alzai il capo e vidi sopra di me un uomo alto, con addosso un elegante cappotto grigio, la faccia preoccupata.
«Non preoccupatevi, mister» risposi tremante. «Non mi avete investito. Sono io che mi sono gettata a terra per evitarvi».
«Mi dispiace, davvero! Il fatto è che...».
«Nessun problema. Ora mi rialzo e...». Il tentativo di rimettermi in piedi, però, non andò a buon fine. L'acuto dolore al fianco e il ghiaccio scivoloso si rivelarono ostacoli insormontabili.
«Aspetta, che ti aiuto».
Due mani forti e decise mi afferrarono sotto le ascelle e mi rimisero in piedi. «Grazie» mormorai impacciata.
«È il minimo che potessi fare! Sicura che non hai bisogno di un medico?»
chiese un po' agitato.
L'uomo in realtà era un ragazzo con i capelli biondi un po' lunghi e spettinati, occhi azzurri, un leggero filo di barba e due labbra ben disegnate. Avrà avuto poco più di vent'anni. Decisi che potevo tranquillamente dargli del tu.
«No, ti ringrazio. È il ghiaccio a essere davvero... duro!» replicai, continuando a massaggiarmi il fianco dolorante. Prima di sera si sarebbe formato un ematoma.
«Allora... scusami ancora!». Un accenno di sorriso gli illuminò il viso. «OK. Ora però me ne vado a scuola, altrimenti farò tardi».
«Se vuoi, ti accompagno. In fondo mi sento in debito nei tuoi confronti». «No, grazie, preferisco andare a piedi. Di pazzi al volante, per oggi, non ne
ho più bisogno» replicai con tono volutamente acido. La paura stava passando, sostituita da una rabbia profonda.
«Ma, veramente...».
«Veramente niente! Come si fa ad andare a duecento all'ora a North Berwick?» gridai.
Per tutta risposta il ragazzo scoppiò a ridere. Lo guardai irritata: non capivo proprio cosa ci fosse di così tanto divertente.
«A parte che non andavo così veloce, il fatto è che non ti ho vista! Sei sbucata all'improvviso, subito dopo il dosso. Piuttosto» continuò con un sorriso ironico «che diavolo ci facevi in mezzo alla strada? Non lo sai che esistono i marciapiedi?».
«Certo che lo so, scienziato!» gli abbaiai contro. «Ma vorrei vedere te camminare sopra una lastra di ghiaccio senza scivolare».
«Beh, alla fine sei scivolata lo stesso» ribatté, ridendo.
Le mie guance avvamparono per la rabbia.
«Sì, ma per colpa tua!».
«E dei tuoi anfibi slacciati» ribatté, indicandomi le calzature. Toccatemi tutto ma non i miei adorati anfibi!
«Quelli sono OK così!» gridai. «Se mi sono buttata a terra è stato solo per non rimanere uccisa!». Quel tipo era veramente indisponente.
«Uuuh, come sei esagerata! Comunque, accetta il mio consiglio: allacciati le scarpe».
«A me, invece, piace portarli così» replicai impettita.
«Moda di ora?» chiese alzando un sopracciglio.
«Moda mia!» risposi acida. La tentazione di mandarlo a quel paese era fortissima.
«OK, messaggio ricevuto. Ti chiedo scusa e... se davvero non vuoi un passaggio, tolgo il disturbo perché anche io sono in terribile ritardo!».
«Puah! Non salirei nella tua macchina per tutto l'oro del mondo» sbottai,
voltandogli le spalle.
Senza dire una parola, il ragazzo, scuro in volto, risalì sulla Porsche, mise in
moto e partì a razzo.
Mentre l'auto si allontanava verso il centro non potei fare a meno di chiedermi da dove sbucasse quello strano personaggio. Per quanto mi sforzassi, infatti, ero sicura di non averlo mai visto. "Non dev'essere di qui" pensai. "A North Berwick ci si conosce tutti".
Ancora frastornata raccolsi l'iPod, constatai con sollievo che non avesse subito danni e ripresi il mio cammino verso la scuola.
Avevo appena rischiato la vita, mi ero presa un forte spavento e una terribile
botta al fianco, eppure non riuscivo a non sorridere. Probabilmente era lo shock, non c'erano altre spiegazioni.
Di quell'incidente non ne parlai con nessuno. Neppure quando mamma, giorni dopo, notò il livido sul fianco, dopo che ero uscita dalla doccia.
«Cosa è quella roba, Jessica?».
«Oh, quello?» risposi un po' imbarazzata. «Sono una scivolata sul ghiaccio mentre andavo a scuola».
«Vedi che ho ragione? Dài retta alla tua mamma, allacciati quelle dannate scarpe che porti!».
Ma quali scarpe? Quelli sono i miei amatissimi anfibi viola!

L'amore, finalmente - le prime peripezie di Jessica Stuart -Where stories live. Discover now