Capitolo 2

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"No, no, there's no solution"

Era la maledizione di Sisifo. Ma al suo posto c'ero io.
Ero all'inferno. Quello vero. In confronto a quando ho incontrato Satana, quel posto era la sala d'aspetto, dell'inferno.
Ero ai piedi della rupe dove è accaduto tutto. Davanti a me avevo una roccia gigantesca. Il mio compito era portarla in cima.
Arrivato in cima, vidi la macchia. Guardai giù dalla rupe. Un burrone pieno di fiamme.
Dalle fiamme spuntò Satana, nella sua vera forma. Era la cosa più ripugnante e imponente mai vista. Era un gigante rosso. Dai suoi muscoli si vedevano uscire le facce delle persone morte che lui aveva intrappolato nel suo corpo. Aveva delle grandi corna.
Urlava.
—Come hai potuto disobbedirmi?! Mi hai tradito! E ora marcirai nel mondo degli umani! Preso per pazzo! Quando in realtà sarai l'unico a conoscere la verità!—
Conoscevo quelle parole a memoria ormai. Ma tutto andava come doveva andare e io non avevo il controllo di nulla.
Con la sua enorme mano spazzava via il masso, dietro cui cercavo di nascondermi. Faceva male. Atterravo ai piedi della rupe, che adesso era molto più alta. Era sempre uguale. Arrivavo in cima. Satana mi rispediva giù, e poi la rupe era più alta e la roccia più pesante da spingere. Fino al momento in cui non ce la facevo più. Non avevo più forze, e dalla cima di una rupe altissima, non mi crollava addosso un masso che pesava tonnellate. Ma ogni volta mi svegliavo prima di poter morire schiacciato. Io sapevo che quella era la realtà. E questo... Il mio limbo. Avrei semplicemente voluto morire schiacciato, e finire tutto. Ma lui non me lo permetteva.
Ogni volta mi svegliavo alle 6:56. Ma l'orologio segna sempre 6:66.

«Bene, Lester.»
Disse la dottoressa svegliandomi. Ero sulla sedia del suo studio. Ma sempre legato con la camicia di forza.
Come c'ero arrivato lì?
Guardai l'orologio.
«Sono le nove e mezza. Scusa per il ritardo»
«Almeno ho dormito un po'...»
«Stanotte non hai dormito?»
«Ho fatto l'Incubo.» dissi.
Appena Amy sentì quella parola si innervosì.
«Quello non è dormire. Ma io... la prego di trovare un rimedio. Non dormo da tempo.»
«Lester, se con i sonniferi che ti ho dato tu continui a "non dormire" non ho che fare. Non c'è soluzione.»
Nero.

Ero di nuovo nella mia cella di isolamento. Continuavo a non ricordarmi come ero tornato o che era successo.
Una guardia mi guardò.
«Oh, bensvegliato, principino. Ti sei divertito a procurare un occhio nero e una frattura alla gamba alla dottoressa?»
Percepivo del sarcasmo.
Avevo ancora la camicia di forza ed ero ancora legato alla stessa sedia di quello studio, come avrei fatto a picchiare la dottoressa?
Poi mi portarono il pranzo. La solita poltiglia di patate. Non la mangiai.

«Lester, ci sei?» Sentivo Jennifer chiamarmi. I suoi riccioli rossi erano tra le mie dita.
«Certo, amore. Sono qua.» feci mentre le guardavo il viso, accarezzandole i capelli.
Eravamo su un letto. Era l'alba. Dalla finestra dietro di lei arrivava la luce arancione che si espandeva per tutta la stanza.
«Lester?» continuava a chiamarmi, non mi vedeva. Io non capivo.
I suoi capelli iniziarono ad essere di un rosso... strano.
Rosso sangue.
Faceva fatica a respirare, e provava a chiedermi perché. Non capivo a cosa si riferiva.
Le tolsi la coperta e lo vidi. Aveva una ferita che le andava dai polmoni fino all'inguine. Era squartata.
La luce svanì. Era tutto nero. Non c'era più nemmeno lei.
Sentii una risata, mi girai e vidi le fiamme.
Mi svegliai di botto. Ero nella mia cella. Ma c'era un computer con una videochiamata. Era la dottoressa. Mi chiamava.
«Lester? Non vedo nulla.»
«Ci sono.» risposi. «Scusi per oggi. Non ho idea di cosa mi sia successo»
Mentre parlavo mi ero posto una regola: mai più mostrarmi emotivamente alla dottoressa. Sarei stato un robot da quella seduta in poi.
Avrei semplicemente raccontato la storia nel modo più imparziale possibile.
Niente sogni.
Niente emozioni.
«Ok Lester. Vuoi continuare la tua storia?»
«Certo. Quindi, di fronte a me c'era una città grandissima, con cascate, arcobaleni, e più in avanti grattacieli e case di lusso. Ebbi un ricordo di Satana che diceva —East City è divisa nella parte paesana, e la parte moderna. Inizia da quella paesana e disegna tutti chiedendo i nomi, poi vai in quella moderna, che là la gente va e viene.
Finalmente cominciavo a ricordare. Ero felicissimo. E incominciai ad esplorare la parte paesana. Prima di incamminarmi uscii fuori dalla valigia il taccuino, e incominciai a guardare i ritratti. Pian piano riconobbi tutti, vedevo il ritratto, e qualche secondo dopo vedevo loro! Mi conoscevano tutti! —Ciao, Gerard!— Disse allegra un'ingobbita vecchietta. Guardai il taccuino e poi risposi —Salve signora Dupont!— Era una vecchia signora francese emigrata ad East City a causa della guerra nucleare. Come lo sapevo? Questo non lo so.
—Vuoi una fetta di torta, Gerard caro?— Mi chiese la signora Dupont.
—Oh, la ringrazio, signora!— Poi lei si chinò e fece a Buc ed Egg. E voi gradite qualche osso da rosicchiare, bei cagnolini?—
Cagnolini? Dovevano avere cani strani.
—Peeh!— Fece, Egg, disgustato.
—Oh, no grazie, io sto bene così.— rispose invece Buc. Ma la signora non sembrò capirlo e andò in cucina a prendere gli ossi, che ficcò in mezzo alla crepa di Egg e mise in equilibrio sopra la testa di Buc. Tutt'e due scuotevano la testa a più non posso per far cadere l'osso, ma non si staccavano, sembravano incollati.
—Accomodati.— Mi disse la vecchietta, spalancando la porta. Io entrai, incerto. E i "cagnolini" mi seguirono.
Entrando mi trovai davanti un grande tavolo con sopra un vassoio con una torta alle ciliegie, mi venne l'acquolina in bocca. La vecchietta incominciò a tagliarla ed io vidi il ripieno. Era una marmellata alle ciliegie che sembrava buonissima, E lo era, perché pochi secondi dopo mise la fetta in un piatto e me lo passò per mangiarlo. Io mangiai di gusto, con la fame che avevo, e ne chiesi un'altra. La mangiai in cinque secondi, e allora fui sazio. Mi voltai a guardare Egg e Buc, con gli ossi incollati. Mi venne un flash. Era Satana. —Stai attento! I vivi ti vedono come vogliono! E molto probabilmente vedranno Buc ed Egg come dei cani, che tieni al guinzaglio, loro non lo sanno, ma usufruiscono una magia atroce su noi morti!— Morti? Io ero morto? Gli umani sono magici? Non ci capivo più nulla... Poi notai che gli ossi sembravano rosicchiati. Era la magia della signora Dupont a fare ciò? Tutto questo mi inquietava. Dal nulla scoprivo che gli umani sono magici ed io sono morto. Mi guardai, scosso. Per una frazione di secondo vidi che ero vestito con una camicia bianca, una cravatta verde chiaro, ed una giacca nera. Mi voltai verso Buc e Egg e mi sembrarono due Rottweiler che scuotevano la testa con gli ossi tra le fauci bavose. Ecco cosa vedeva la signora Dupont! Rimasi un po' scioccato da quell'evento. —Signora...— Balbettai —Posso... Posso usare un'attimo il bagno?
—Ma certo! La penultima porta a sinistra— mi rispose la signora.»
Amy era lì a prendere appunti con quel suo occhio nero. Mi dava fastidio quel rumore di grafite strofinata. Ma continuai a raccontare.
«—Grazie— dissi, e mi alzai, per poi avanzare nel corridoio. Poco prima di raggiungere il bagno, la porta prima, era aperta. Era una stanza piena di libri. Un libro, piccolino, rosso, attirò la mia attenzione. Non solo era sulla scrivania, distaccato dagli altri libri, ma luccicava pure. La stanza non aveva alcuna finestra o lampada, c'era quel libro al posto loro. Emanava una luce rossa nella stanza. Entrai, per scorgerlo meglio. E mi apparse un borsello a tracolla. Capii che dovevo prenderlo. Lo presi in mano e mi accorsi che scottava come della lava. Mi cadde dalle mani atterrò a terra, con uno strano tonfo metallico. Aprì il borsello e presi il libro, poi, pian piano, lo feci scivolare dentro. Il borsello si chiuse di scatto e scomparve.
—Tutto bene?— Ululò la signora Dupont
—Sì, non si preoccupi— Risposi, guardando dove prima c'era il borsello.
Alzai lo sguardo e mi accorsi che non c'era nessuna scrivania, nessuna libreria. C'era una finestra e un letto matrimoniale. Indietreggiai verso la porta, ma sbattei di schiena, mi girai e vidi che la porta era chiusa. La aprii senza far rumore, poi uscii e la richiusi, per poi correre nella porta di fronte: il bagno. Quando fui in bagno chiusi la porta e mi guardai allo specchio. Fù allora che mi vidi in faccia. Avevo capelli biondi, scompigliati, della barba incolta, e una brutta cicatrice sull'occhio sinistro. La cicatrice mi dimezzava il sopracciglio, passando sopra le palpebre chiuse, e finendo sulla guancia. In una frazione di secondo mi vidi con tutti e due gli occhi, vestito elegante, come prima.
Avevo una brutta scottatura sulle mani, a causa di quel libro. Mi avvicinai al lavandino, e con un dolore lancinante alle mani, aprii il rubinetto e lo misi il più freddo possibile. Misi le mani sotto l'acqua, poco dopo le uscii ed erano guarite. Chiusi il rubinetto.
Tornai dalla signora Dupont e la salutai, incitando Buc ed Egg ad uscire.»
Stavo per continuare ma Amy mi fermò.
«Lester, Fermati! Devi concentrarti nel contenere la tua violenza e... la tua volgarità. Anche nel racconto.»
«Volgarità?» Non capivo.
«Lester, mi hai appena urlato contro come mi uccideresti e stupreresti il mio cadavere solo perché ti dava fastidio il rumore della matita.»

E capii che quello che facevo e quello che pensavo di fare non corrispondevano.

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