5. Jhoe

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—Conosce la ragazza?
—Sì, la conosco.
—Prenda la sua borsa e venga con noi in ospedale.
Jhoe era ancora lì, ad osservare il corpo di Charlotte trasportato nel veicolo dell'ambulanza.
Vi erano un medico e un paio di infermieri, con l'intento di sollevarla dall'asfalto nero; Jhoe non capiva come potesse essere successa una cosa del genere, aveva fatto di tutto per non perderla di vista, eppure..
La testa della ragazza era in uno stato di abbandono, le braccia e le gambe penzolanti. Vederla in quelle condizioni faceva male, molto male a Jhoe. Allargò la sua visuale e alzò un braccio in alto non appena vide un taxi fermarsi al marciapiede di fronte all'incidente. Entrò rapidamente nell'auto, e disse al tassista quale fosse la sua destinazione. Pregò l'uomo, -probabilmente sulla cinquantina, dati i suoi capelli e la sua barba bianchi-, di accelerare e seguire il veicolo dalle luci blu e rosse.
Dietro di loro, lo scenario dell'incidente sulla Rinity Street era sempre più lontano, e Jhoe avrebbe voluto che lo fossero anche i suoi pensieri legati ad esso. La borsa di pelle nera della ragazza era seduta accanto a lui, la osservò per un po': una piuma dello stesso colore era legata alla cerniera da un ciondolo in acciaio. Si accorse del fatto che la borsa fosse leggermente aperta, la richiuse facendo attenzione a non far incastrare la piuma nella chiusura, come aveva ormai imparato osservando la delicatezza della proprietaria nel farlo.
Proiettò lo sguardo altrove, fuori dal finestrino aperto: le luci che illuminavano le vie della città erano l'unica cosa bella che avesse mai visto quella sera, dopo l'incidente. Sentiva il vociare dei passanti, le luci che illuminavano le strade ormai buie, che secondo il suo punto di vista, era spettacolari; creavano un'atmosfera magica, un po' particolare. Così come il cielo stesso: un dipinto a mano completamente nero, con un grande luna piena al centro di esso.
Si ricompose sul sedile del veicolo nel momento in cui notò che quest'ultimo era ormai fermo da qualche attimo, e sentì lo sguardo pesante del tassista su di lui. Infilò la mano nella tasca dei jeans e pagò l'anziano signore. —Tenga pure il resto.
L'uomo gli fece un occhiolino ma Jhoe non lo notò - era concentrato, pensieroso sul da farsi, una volta messi i piedi per terra - afferrò la borsa di Charlotte, scese dall'auto, e osservò l'ospedale di fronte a sé, ovvero il migliore della città di Raiven, -da quello che aveva potuto capire. In fretta e furia raggiunse l'entrata e le porte automatiche si aprirono da sole al suo arrivo, accompagnate da un leggero suono quasi impercettibile dall'udito umano. Si guardò attorno: non gli era mai capitato di trovarsi in un posto così luminoso prima di allora, circondato da così tante poltroncine blu, affiancate da altrettanti tavolini in marmo. Al centro vi era una reception; il suo desiderio di intrufolarsi e di cercare la ragazza di testa sua era molto forte, ma si trattenne, e indossò nuovamente gli abiti di un perfetto essere umano. 
Avanzò lentamente, con la costante paura di non riuscire a comportarsi nel modo più adeguato. Alla reception una signora, la quale vestiva un camice bianco e un rossetto rosso molto scuro, gli sorrise, chiedendogli se poteva essere d'aiuto, appoggiando i suoi occhiali da vista sul naso.
—Vorrei sapere dove posso trovare  Charlotte Script.
—L'orario delle visite è terminato da un po'. Non hai letto il cartello all'entrata? — disse la donna, indicando una grande scritta nera sul contrastante sfondo bianco.
—Probabilmente sono stato poco chiaro. La ragazza è stata appena portata in ospedale d'urgenza a causa di un incidente stradale; gli infermieri che erano lì mi hanno chiesto di portare le sue cose, ed eccomi qui.
L'infermiera digitò qualcosa sul computer alla sua destra, guardò Jhoe da sotto gli occhiali e gli chiese: —Hai un legame con la ragazza?
Improvvisamente il ragazzo pensò che avrebbe dovuto inventare una storia al riguardo al momento giusto, e non doversi affidare all'improvvisazione. —Sono di famiglia. Per favore, mi faccia entrare.
—Non posso lasciarle alcuna informazione. — aggiunse lei, come se non avesse ascoltato la risposta del ragazzo.
Jhoe serrò le labbra, i suoi occhi verdi si strinsero e le pupille si dilatarono, tanto da far diventare l'occhio completamente di color inchiostro. Recitò un cantico in una lingua antica, sconosciuta nel mondo degli umani, con i pugni chiusi sui fianchi per circa qualche secondo. Poi allentò la concentrazione, e i suoi occhi tornarono del loro verde smeraldo.
L'infermiera vide qualcosa negli occhi del ragazzo, il quale aveva ancora tra le braccia la borsa di Charlotte, che lei notò e non poté fare a meno di accennare un sorriso, ancora stordita e confusa. —Va'. Sono arrivati da qualche minuto: terzo piano, camera 56.
Jhoe non se lo fece ripetere due volte, ma prima di prendere le scale, disse un'ultima cosa. —Tra non molto arriveranno altre due persone. Non le trattenga tanto tempo come ha fatto con me.
Non attese una risposta, per lui l'importante riferirlo, perché era sicuro  che sarebbe successo e si allontanò con un sorriso compiaciuto.
Salì i gradini a due a due, sperando di arrivare il più velocemente possibile, ricordando di possedere ancora molte delle sue abilità naturali. C'era molto silenzio ormai intorno a lui, tranne al secondo piano; lì erano ricoverati i bambini, si sentivano in lontananza le loro voci appena assonnate, attente probabilmente a seguire qualche cartone animato in televisione.
Una volta giunto al terzo piano, si fermò un attimo di fronte ad un immenso corridoio in penombra e cercò di capire come erano disposte le camere con i loro rispettivi numeri: i numeri pari era sul lato destro del corridoio, quelli dispari sul lato opposto. Riprese a camminare finché non arrivò di fronte a quella stanza che tanto cercava: la camera 56.
Appoggiò una mano sulla porta scorrevole quando si sentì chiamare alle spalle. —Cerchi qualcosa?
Un ragazzo dal camice bianco lo fissava nell'intento di capire cosa volesse fare quel giovane, lì da solo, nel corridoio d'ospedale ormai deserto a quell'ora.
—Sono venuto a portare la sua borsa e a vedere come sta. Mi hanno chiesto i suoi colleghi di raggiungerli qui in ospedale.
—Allora sei tu. Ti aspettavamo in effetti, puoi rimanere. Abbiamo bisogno di alcune informazioni sulla ragazza, è tutto nella borsa, immagino. — affermò l'infermiere prelevando una penna da una delle tasche del camice, all'altezza del petto.
—Io credo che debba prima fare una telefonata per avvisare di ciò che le è accaduto. Se mi vuole scusare..
Jhoe si allontanò dal ragazzo in camice e si diresse verso delle sedie d'attesa blu accanto ad ogni stanza. Appoggiò la borsa di Charlotte su una sedia e cercò il suo cellulare all'interno di essa.
Jhoe provò una strana sensazione nel toccare gli oggetti di Charlotte, i quali conosceva molto bene e da molto tempo, quasi come fossero suoi.
Accese il dispositivo e compose il numero di telefono di Diana, -che intanto stava aspettando Charlotte al Machalavich Bar -, sperando in una sua risposta. Nel momento in cui sentì la voce di Diana, Jhoe pensò che non aveva preparato ciò che aveva da dire, di nuovo. In questi casi, improvvisare è per le persone forti.
—Diana, Charlotte non sta bene. È in ospedale, dovresti venire.
La ragazza riattaccò dopo aver udito queste parole, che non chiese neanche di chi fosse quella voce sconosciuta. Jhoe sapeva che poteva fidarsi, lei teneva molto a Charlotte.
Ripose il cellulare di quest'ultima nella borsa e iniziò a camminare nervosamente su e giù per il corridoio, quasi del tutto buio, se non fosse per delle luci biancastre sopra ogni numero di camera. Egli strofinava le mani sudate nervosamente, l'una contro l'altra, pensando a quale fosse la cosa migliore da fare in quel momento. Su ogni porta un quadrato di vetro dà la possibilità di intravedere l'interno della camera; Jhoe si avvicinò lentamente alla porta che lo divideva da Charlotte, ed al suo interno vide soltanto un paio di sedie, simili a quelle che si trovavano nel corridoio e una grande finestra. Sperò di poterla vedere, che tutto sarebbe andato per il meglio. Non poteva succederle questo, non dopo quello che Jhoe ha fatto per lei e che assolutamente continuerà a fare, se sarà necessario.
I due ragazzi stavano camminando a passo svelto, conoscendo già la loro destinazione. Jhoe era lì, aspettando il loro arrivo: riconobbe i capelli lisci e gradualmente schiariti di Diana, e i muscoli ben scolpiti del ragazzo. Avanzavano insieme, perché una cosa la sapevano: stavano rischiando di perdere una parte di loro, ed avevano paura che ciò sarebbe accaduto.
—Sei un infermiere? — chiese Diana a Jhoe, mostrandosi più forte di quel che in realtà era, quella sera.
Il giovane non ebbe modo di rispondere, poiché sentirono dei passi medici alle loro spalle provenienti dalla camera di fronte a quella di Charlotte.
—Vorrei parlare con uno di voi, se permettete.
Diana fece un passo in avanti, senza incrociare lo sguardo degli altri due presenti, e proseguì, seguendo il medico nella camera di Charlotte.




Buongiorno, carissimo popolo di Wattpad! Come state?
So che non aggiorno da secoli, purtroppo la scuola e lo studio occupano la maggior parte delle mie giornate, e a volte un po' per la stanchezza, un po' per mancanza di tempo, le idee e l'ispirazione vengon meno.
Detto ciò, ecco un nuovo capitolo, questa volta dal punto di vista di Jhoe; come sempre mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate!
Alla prossima!

Cchiiara

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 05, 2016 ⏰

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