C'era una bambina seduta infondo alla sua stanza. I suoi capelli castani e ricci erano in disordine e i suoi occhi nocciola stavano fissando la porta. Abbracciò la sua giraffa di stoffa e la strinse contro il suo piccolo corpicino, quando sentì le urla dei suoi genitori nel corridoio.
«Non avrei mai dovuto avere dei dannati bambini!» si alzò una voce con un timbro profondo. «Tutto quello che sanno fare è lasciare in disordine, lamentarsi, disegnare sui muri — » fu interrotto dalla voce di una donna, che gridò ancora più forte.
«Sono bambini, David! Non sanno fare niente di meglio!»
«Oh fottiti Marybeth! Non voglio sentire le sue stronzate! Sono arrivato al limite con loro!»
«E cosa vorresti fare!?»
La bambina sentì un rumore di passi pesanti avvicinarsi alla sua stanza e lei abbracciò più forte la sua giraffa di stoffa. D'un tratto la porta si aprì con violenza e sulla soglia comparve suo padre. Aveva un'espressione furibonda e la sua grossa pancia usciva da sotto la maglietta di cotone. In una delle sue mani tozze, stringeva un grosso tomo.
«David, fermati!» urlò sua madre. Ma suo padre ignorò le sue suppliche. Lui afferrò la piccola bambina per il colletto del vestito, lei urlò e iniziò a scalciare, tremando di paura. Il padre della bambina la colpì duramente alla testa con quel pesante libro.
«Questo è per aver disegnato sui miei fottuti muri, piccola cagna!»
○●○●○●○●○●○
Un anno dopo l'accaduto, la bambina, di nome Natalie, aveva 9 anni. Si stava avvicinando alla fase della pubertà e stava diventando un po' più paffutella. Come al solito, lei stava seduta nella sua stanza, a guardare la TV. Suo padre stava parlando di qualche argomento sull'economia, a cui lei non fregava nulla, mentre masticava alcuni popcorns.
In quel momento, stava disegnando qualcosa: era qualcosa di bizzarro e bello allo stesso tempo, stranamente, a lei piaceva disegnare il sangue. Questo gli dava una strana soddisfazione. Per lei non era un problema disegnare anche altre cose. Aveva fatto molta pratica nei laboratori della scuola e aveva dimostrato un talento naturale e una inclinazione artistica. Il disegno era il suo talento e anche la sua passione. Era la sua via di fuga dalla realtà, che spesso usava quando gli accadeva qualcosa di brutto o semplicemente, quando era annoiata.
Un momento dopo, udì la porta della sua stanza chiudersi e si voltò, smettendo di mangiare i suoi popcorns. Suo fratello Lucas era in piedi davanti a lei, aveva 14 anni.
«Che cosa c'è?». Lei poteva sentire ancora gli urli di suo padre da fuori la porta.
«Papà ti fa paura?» si lasciò sfuggire una debole risatina.
«Niente affatto, tanto ormai ci abbiamo fatto tutti l'abitudine alle sue urla.»
Poi ci fu una lunga pausa.
«Allora, perché sei qui?» lui sembrò giocare con le maniche della sua maglietta ed ebbe anche una specie di contrazione.
«Volevo chiederti una cosa.» trattenne lo sguardo su di lei.
Natalie si accigliò leggermente, mente la sua impazienza aveva iniziato a crescere dal momento in cui suo fratello l'aveva interrotta dai suoi disegni e dal film che stava guardando.
«Tu...» si avvicinò un po' di più a lei «Tu avevi detto che volevi essere carina e crescere come una vera ragazza, giusto?» lei annuì, ravvivandosi leggermente più di prima.
«Beh, avrei un'offerta da farti.»
«Arriva al dunque imbecille!»
«... Tu sai cosa... cosa fanno i ragazzi e le ragazze insieme, qualche volta, giusto?»
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Il giorno seguente, Natalie non disse una parola.
Non parlò per tutto il giorno e ad ogni modo, non aveva nessuno con cui poter parlare. Nessuno poteva sapere. Nessuno DOVEVA sapere. E allora, nessuno lo avrebbe mai saputo.
La sua maestra aveva colto una serie di espressioni facciali da parte sua e le aveva chiesto il motivo, ma lei aveva risposto semplicemente che non capiva la lezione. Natalie, si sentiva ferita. Lei non aveva neanche la minima idea che le avrebbe fatto così male. Era spaventata, camminò verso casa e silenziosamente andò nella sua stanza.
Più tardi, lo stesso giorno, fu di nuovo violentata da suo fratello.
Nessuno, doveva sapere.
A scuola, finalmente si decise di parlarne con qualcuno. Anche se non erano proprio sue amiche, sentiva che doveva dirglielo. Si avvicinò a un gruppo di ragazze che aveva visto occasionalmente nel corridoio della scuola. Sembravano ragazze a posto e qualche volta aveva anche già parlato con loro.
«Ehi... Mia...» la ragazza coi capelli color carota si voltò verso Natalie, con una faccia seria.
«Sì?»
«Io uhm... ho veramente bisogno di parlati di una cosa. Sarà una cosa breve, per te e le tue amiche... beh, sento che siete le uniche persone di cui mi posso fidare.»
Mia e le sue amiche fecero un piccolo sorrisetto malizioso, per un breve istante. Loro erano sempre affamate di gossip.
«Sì, certo. Ti puoi fidare di noi. Che cosa è successo?»
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Il giorno dopo, tutto prese un'altra piega.
Aveva ricevuto costanti osservazioni su siti di social network come Facebook. Una volta, qualcuno la chiamò anche troia. Per non parlare di quella volta che il pranzo della scuola le finì sulla testa. Ma questo sembrava essere l'ultimo dei suoi problemi. Natalie, aveva solo 9 anni, e questo fatto non poteva che averla lasciata sconvolta.
Tuttavia, da quella volta, non disse mai nulla.
Non si lasciò mai sfuggire una parola su quel fatto. Da quel giorno, aveva deciso di tenersi tutto dentro, lei pensava che così sarebbe stato meglio e nessuno l'avrebbe mai più presa in giro.
○●○●○●○●○●○
Erano le tre del mattino e il giorno seguente c'era scuola. Sua madre l'avrebbe uccisa se l'avesse scoperta. La ragazza di nome Natalie, ora aveva 16 anni. Era diventata molto produttiva alle superiori, ormai vicina a diventare una studentessa modello. Per una volta nella sua vita, si sentiva realizzata e felice. Come al solito, in casa si comportava come un'eremita. Chiudendosi nella sua stanza e stando ben alla larga da suo padre, che non aveva mai smesso di urlare e di parlare di argomenti che riguardavano l'economia, la politica e i soldi, tutte cose di cui a lei non fregava nulla.
I suoi occhi si stavano facendo pesanti.
Le era stato assegnato un compito che doveva ancora portare a termine, ma non era così importante per lei. Il suo attuale e unico pensiero, ora, era dormire. Chiuse il suo laptop e i suoi occhi si abituarono lentamente al buio, e vide la sua vecchia e usurata giraffa di stoffa nell'angolo della stanza. La guardò in completo silenzio. I ricordi le passarono nella mente e sentì le lacrime iniziare a pungerle gli occhi. Ma rapidamente, le riuscì a mandare indietro. – Niente più lacrime. – pensò tra sé e sé. Ma continuò a fissare il pupazzo.
«Che cazzo hai da guardare?». Urlò all'oggetto inanimato, che rimase semplicemente a "fissarla" coi suoi piccoli occhietti di bottoni. Lei scosse la testa e si alzò in piedi. Poi, abbassò lo sguardo, guardando il piccolo animale di peluche, per poi prenderlo tra le braccia. Lo strinse a sé e poi, con una voce soave gli parlò: «M-mi dispiace».
Alcune lacrime iniziarono a rigarle il viso. La accarezzò e si coricò a dormire con la sua giraffa, finché lentamente non scivolò nel sonno.
Il mattino seguente, fu svegliata dall'urlo arrabbiato di sua madre. Lei, aprì pigramente un occhio, giusto per capire il motivo per cui stava strillando.
«Non riesco a credere di aver dimenticato di portare via il laptop! Ci sei stata attaccata tutta la notte, non è così?!». Natalie sospirò e pressò la faccia contro il suo cuscino, stringendo forte a sé la sua giraffa.
Sua madre sbuffò e uscì dalla sua stanza.
Natalie si fece una doccia, si lavò i denti, fece una colazione leggera e poi si vestì. Indossò una felpa in tinta unita, grigio-blu, con un cappuccio rivestito di pelliccia sintetica all'interno. Non era uno dei suoi abiti preferiti, ma non aveva altra scelta, visto che il resto era a lavare. Si infilò un paio di jeans neri attillati e un paio di stivali di ultima 'tendenza'. Poi, finalmente scese le scale e uscì di casa, per essere accompagnata a scuola. Lei salì in macchina e sua madre accese il motore.
Nel mentre che si stavano avviando verso la sua scuola, ancora mezza assonnata, Natalie appoggiò la testa contro il finestrino e iniziò a ripensare ai suoi sogni, o per meglio dire, ai suoi incubi, i quali non erano altro che raccapriccianti ricordi del suo passato.
A partire dagli abusi che aveva subìto quando era bambina dal padre e poi, agli abusi sessuali di suo fratello, Lucas, che solo negli ultimi 4 anni, era riuscita a trovare la forza di respingerlo. Lei aveva iniziato a piangere e ad avere una serie di spasmi involontari durante il sonno. Ma sua madre non se ne accorse. Sua madre non si era mai accorta di nulla.
Poi, la voce di sua madre la svegliò.
«Siamo arrivati».
La macchina si era fermata davanti alla grande insegna della scuola, che recitava a caratteri cubitali – Walker Vill Istituto delle Belle Arti e Creative. Natalie sospirò stanca e sgusciò fuori dalla macchina, con lo zaino in spalla. «Ci si vede!». Disse, chiudendo la portiera.
Entrò a scuola e dopo aver chiacchierato con un paio di amici, si avviò al terzo piano, dove prese alcuni libri dal suo armadietto e prima che suonasse la campanella, corse in classe.
La sua insegnante di inglese, con aria stufa, aveva appoggiato una mano sul banco di Natalie. «Dov'è il suo compito, Signorina Ouelette?». Natalie ebbe un singulto. «L-l'ho dimenticato a casa, Signora Homenuik». L'insegnante sospirò di rabbia e rimase lì in piedi. «Il suo tempo è scaduto, Signorina Ouelette. Non mi deluda».
Natalie rimase un attimo sorpresa da quelle parole. Non sapeva il perché, ma sentiva che quelle parole avevano qualcosa di familiare. Poi, ignorò semplicemente quel pensiero e tornò ad ascoltare la lezione, addormentandosi poco tempo dopo, naturalmente.
Più tardi, lo stesso giorno, si stava dirigendo verso il suo armadietto a prendere il materiale per la quarta ora, quando all'improvviso il suo ragazzo, Chris, si avvicinò a lei.
«Ehi... ti vorrei parlare in privato dopo la scuola, va bene?». Lei sorrise amorevolmente a Chris, senza sospettare nulla di strano. Lui era sempre stato un ragazzo molto dolce.
Durante la lezione di francese, aveva deciso di non ascoltare, così aveva iniziato a scarabocchiare qualcosa su un foglio, disegnando quello che amava tanto disegnare: sangue, omicidi, gente che viene accoltellata e coltelli.
Le altre persone avrebbero detto che questo era piuttosto raccapricciante da parte sua disegnare cose del genere, ma lei non ci vedeva nulla di sbagliato. Per qualche strana ragione, lo sentiva come una cosa normale per lei.
«Signorina Ouelette».
Rapidamente coprì i fogli con un braccio e alzò lo sguardo verso il suo insegnante di francese, cercando di nascondergli la sua paura. «Uh... sì, Signor LeVasseur?». Lui fece cenno col capo di spostare il braccio dal foglio che stava coprendo. «Fammi vedere il tuo lavoro». Un po' titubante scostò il braccio, mostrandogli il disegno di qualcuno che veniva accoltellato da un folle assassino. L'insegnante rimase a guardare per qualche attimo sbigottito, mentre lei sorrideva nervosamente.
«Cancellalo, e inizia a fare il tuo lavoro». Disse, con un tono di voce stranamente calmo.
Lui si allontanò e lei levò un sospiro, iniziando a cancellare il suo disegno. «E signorina Ouelette...». La ragazza alzò lo sguardo. «Il tuo tempo per portare a termine il lavoro assegnato sta quasi per scadere. Ti consiglio di farlo adesso».
Lei sospirò ancora per il rimprovero che aveva ricevuto, sembrava che il tempo remasse sempre contro di lei. Ma per quello che gliene poteva fregare, il tempo ora poteva anche andare a farsi fottere.
Dopo le lezioni, Natalie uscì da scuola per incontrare il suo ragazzo, sperando che lui avrebbe potuto risollevarla dalla pesante giornata che aveva avuto. Ma quando lei gli si avvicinò, il suo sorriso mutò, quando vide che non stava ricambiando.
«Chris, cosa c'è che non va? Di cosa mi volevi parlare?». Lui sospirò.
«Natalie, io penso che sia arrivato il momento che noi... iniziamo a vedere altra gente». Lei sentì il suo cuore andare in frantumi.
«M-ma perché?».
Lui, a malapena alzò lo sguardo su di lei.
«È il tuo atteggiamento, i tuoi disegni, è che mi... spaventano. Inizio a pensare che ci sia qualcosa che non vada in te. E la parte più triste di tutto questo, è che tu non mi hai mai detto perché ti comporti in questo modo. Questo mi fa sentire un irresponsabile. Quindi, io... non ce la posso più fare. Mi dispiace».
E detto questo, lui le voltò le spalle e cominciò ad allontanarsi.
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Natalie sbatté le mani sul bancone del bagno di casa sua. Si stava guardando allo specchio, quando i suoi occhi avevano iniziato a contrarsi per i tic nervosi.
«Non voglio farmi del male come fanno gli altri. Io posso sopportare». In mano stringeva un ago e del filo nero. «È inutile, non aiuta». Una strana sensazione emerse dal suo subconscio. Ridacchiò leggermente. «No, io lo faccio perché VOGLIO farlo». Alzò l'ago e afferrò il filo per l'estremità, e poi allargò un sorriso.
«Il tuo tempo è scaduto».
Pezzo dopo pezzo, taglio dopo taglio. Anche se ogni fibra del suo corpo stava fremendo per il dolore, non emise un lamento, un piagnucolio o un respiro smorzato. Non c'erano più lacrime da versare, tutto quello che fece, fu un largo sorriso.
Gocce di sangue cadevano sul lavandino e sul bancone. Quando ebbe terminato, ammirò il suo capolavoro. Le dita erano sporche di sangue caldo, poi aveva leccato un dito, assaporando in pura estasi il sapore ferroso del suo stesso sangue. Si interruppe, quando vide allo specchio il riflesso di sua madre, che la stava guardando con occhi sgranati e pallida in volto. Così come la vide, si sentì attanagliare dal dolore e allora, gridò: «Mamma?!».
Non si era mai sentita così confusa come in quel momento. Che cosa aveva combinato?
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Sua madre le aveva programmato delle sedute di psicoterapia. Natalie aveva deciso di farsi sostituire il filo che aveva usato con dei punti di sutura e si rese conto di quando dolore le facevano, così decise di andare da un professionista. Si assicurò che il viso fosse celato dal cappuccio, in modo tale che nessuno l'avrebbe vista. Si accomodò su una confortevole poltrona in pelle e guardò la donna dalla chioma bionda che si stava sedendo di fronte a lei, in silenzio.
«Il tuo nome è Natalie, non è vero?». Natalie si limitò ad annuire.
«Io mi chiamo Debra e sono qui per aiutarti. Ora dimmi, quali sono stati i tuoi problemi di recente?». Natalie la fissò.
«Il tempo. Il tempo è stato il mio problema». Debra le lanciò un'occhiata confusa.
«Qual è stato il tuo problema col tempo?». Le mani di Natalie si aggrapparono alla pelle del sedile.
«Tutto. Il tempo ti fa vivere attraverso la sua realtà, lentamente, progredendo attraverso la vita, controllato dalla società, solo per essere torturato. È un circolo vizioso, il tempo non si ferma, non rallenta, non accelera. È violento e vivi nella tortura, ancora e ancora, incapace di sentire, incapace di superarlo».
Natalie non aveva la più pallida idea di quello che aveva detto. Non si sentì più sé stessa in quel istante. Poteva essere dovuto a tutte le cose che si era tenuta dentro fino a quel momento? No, era impossibile, ma per qualche strana ragione, le piacque.
La psicologa si avvicinò. «Cara, vorrei che mi raccontassi che cosa ti è successo». Natalie rimase a fissarla. Seguì una lunga pausa, poi lei abbozzò un sorriso e i suoi punti di sutura si aprirono leggermente.
«Perché non me lo dici tu, biondina. Sei tu l'esperta». Debra sembrò avere uno sguardo infastidito. «Io non posso aiutarti, finché non mi spieghi che cosa c'è che non va, Natalie».
Le sue dita iniziarono ad affondare nella pelle della poltrona, lacerandola.
«Natalie non è più qui, ormai». Detto questo, gli occhi di Debra si spalancarono e si alzò in piedi.
«Ritorno subito, per favore rimani qui».
Andò via, lasciandola completamente da sola. Natalie non si mosse, rimase lì immobile. Dopo un po' di attesa e impazienza, i suoi genitori finalmente entrarono nella stanza. Lei si alzò felice di andarsene, ma notò l'espressione dei suoi genitori. Persino suo padre, aveva un'espressione triste. La sua confusione crebbe, ma non disse una parola, e li seguì fino alla macchina. Durante il viaggio, pensò che stavano tornando a casa e così, iniziò ad addormentarsi.
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Stranamente, aveva cominciato a sentire una voce oscura parlarle in sogno. Le suonava come se fosse stata la sua voce, che sentiva echeggiare nelle tenebre: «Il tuo tempo è scaduto».
Si svegliò con la fronte imperlata di sudore. Non si trovava a casa, non era in macchina, ma si trovava su un letto bianco in una stanza tutta bianca. Affianco a lei vide il monitor a cui si trovava collegata, e che stava registrando i suoi battiti cardiaci. Fece per alzarsi, ma realizzò in quel momento, che non poteva, perché era legata dal busto in giù. Andò in panico e iniziò a cercare di divincolarsi dalle contenzioni, quando si fermò, perché aveva sentito la porta alla sua sinistra, aprirsi.
Entrò un uomo in una divisa bianca e con le mani dietro la schiena, che la guardò.
«Devi essere molto confusa in questo momento, e posso immaginarlo, ma vorrei farti sapere che siamo qui solo per aiutarti. I tuoi genitori hanno firmato un consenso per somministrarti degli psicofarmaci che aiuteranno a riequilibrare il tuo stato mentale». Lei aprì la bocca per protestare, ma fu presto messa a tacere. «Tornerai normale in un batter d'occhio. Cerca di rilassarti». Lui si avvicinò.
Lei cercò di allontanarsi, ma non poteva muoversi a causa delle contenzioni che le bloccavano i polsi e le gambe. Lui appoggiò una maschera dell'ossigeno sulla sua facca, che le coprì il naso e la bocca. Cercò di scrollarsela di sotto, agitando la testa, ma aveva già respirato il gas e i suoi occhi iniziarono a farsi pesanti.
. . .
All'improvviso, si svegliò.
Non riusciva a capire che diavolo stava succedendo. Le erano state fatte iniezioni multiple di qualcosa e alcune cose erano state strofinate sulla sua pelle. Si sentiva stordita, ma era vigile e consapevole di quello che le stava accadendo intorno. Il suo battito cardiaco stava cominciando ad accelerare al monitor e i medici lo avevano notato, quando poi videro lei ad occhi aperti. Uno dei medici stava urlando a uno dei suoi colleghi. Ma lei non poteva capire di cosa stessero parlando, e all'improvviso, sentì una scarica di adrenalina attraversare il suo corpo come una scossa elettrica, che aveva preso a farla agitare violentemente sotto le contenzioni. Uno dei medici stava per andare a tenerla giù, ma esitò. Tutti e tre i medici indietreggiarono.
Natalie, si alzò a sedere sul ciglio del letto e si strappò la maschera dell'ossigeno e l'ago che aveva infilato nel braccio. Si alzò in piedi, cominciando a inciampare e a zoppicare, col respiro ansante. La sua vista cominciò ad annebbiarsi. Si portò una mano al petto, all'altezza del cuore e cadde sulle ginocchia, tossendo sangue e crollando sul pavimento, mentre perdeva i sensi.
. . .
Si svegliò lentamente.
Era stata riportata a letto e i medici le sedevano affianco. Qualcosa era andato terribilmente storto. Lei non sapeva il perché, ma sentiva l'odio nei confronti del medico. Lui se ne accorse e si voltò dall'altra parte.
«Non ti saresti dovuta svegliare, mentre ti somministravamo le dosi. Non siamo sicuri di come tu abbia fatto a resistere, ma abbiamo il presentimento che presto lo scopriremo». Esitò per un momento, prima di prendere un piccolo specchio, senza degnarla di uno sguardo. Il farmaco doveva aver avuto qualche effetto sul suo aspetto.
I suoi occhi si spalancarono.
Erano completamente verdi! E notificò anche la presenza del filo nero nella sua bocca al posto dei punti, e per qualche ragione, non poté fare a meno di sentirsi felice. Il suo battito cardiaco accelerò di nuovo, ed emise una bassa risatina. Il medico la guardò scioccato, vedendo che ora lei si trovava in piedi, sopra di lui.
«Dottore». Disse, continuando a ridacchiare.
Lui tremava leggermente, mentre premeva un pulsante da sotto il monitor.
«Sì?».
«Il tuo tempo è scaduto».
. . .
Un urlo acuto echeggiò dal padiglione dell'ospedale. Due guardie di sicurezza fecero irruzione nella stanza, sfondando a calci la porta. Il sangue, fu la prima cosa che videro. Sangue sui muri, sul letto, sul pavimento e perfino sul soffitto. Natalie aveva preso il medico e lo aveva legato al letto con le contenzioni.
La sua colonna vertebrale si era spezzata, quando il letto era stato piegato a metà come un panino. Ora, il sangue sgorgava dai suoi occhi, il naso, la bocca e lì, in un angolo della stanza, si trovava il suo assassino, che stava felicemente disegnando col sangue immagini raccapriccianti sulle parete della stanza, seguiti dalla frase: «Il tuo tempo è scaduto».
Lentamente si voltò verso di loro. Gli occhi spalancati e un sorriso malsano deturpava il viso della ragazza. «Ciao amici. Volete giocare?». Le guardie estrassero subito le armi, e quando lei notificò le pistole, riuscì appena in tempo a scartare di lato per evitare una pallottola.
Lei afferrò il suo coltello da tasca e con un taglio obliquo all'altezza della cintura, aveva fatto sicché il sangue e gli organi, fuoriuscissero dal corpo della guardia e che questo, crollasse a terra in un lago di sangue. L'altro scosse la testa per la paura, lasciando cadere in terra la pistola d'ordinanza. Lentamente, lei gli si avvicinò, portando la lama del coltello al suo petto.
«Il tuo tempo è scaduto».
Poi, fece scivolare il coltello fino in fondo al suo stomaco. I suoi organi fuoriuscirono e si riversarono sul pavimento, poi, lui crollò.
○●○●○●○●○●○
La madre di Natalie stava dormendo silenziosamente affianco al marito. Si svegliò, quando udì qualcuno bussare alla porta e uscì dalla camera da letto per andare ad aprire. Fuori, stava piovendo a dirotto. Si avvicinò alla porta ed esitò, quando fu lì lì per afferrare la maniglia. Si udiva una debole risata fuori dalla porta e il rombo dei tuoni e della pioggia, sembrarono placarsi. Appoggiò l'orecchio contro la porta.
«Ciao, mamma».
Natalie fece irruzione dalla porta, brandendo due coltelli in mano. Sua madre barcollò all'indietro e picchiò violentemente la testa contro l'appendiabiti. Uno dei ganci perforò il suo cranio, iniziando a farla sanguinare copiosamente dalla parte posteriore della testa e poi, crollare sul pavimento. Lei cadde riversa al suolo, paralizzata, ma ancora cosciente. Natalie era sopra di lei e lentamente, si inginocchiò, a livello dei suoi occhi e le mostrò le due lame di coltello, ricoperte di sangue rosso vivo.
«Io stavo soffrendo mamma».
Le lame affondarono nella pelle delle sue guance, tagliandole obliquamente. Poi, Natalie inclinò la testa. «Tu eri debole e non hai fatto niente». Sua madre non faceva che tremare e annaspare aria, come fosse un pesce fuor d'acqua. Natalie afferrò sua madre e poi, la mise a sedere, iniziando a tagliare una 'V' sul suo petto. Sua madre rimase a bocca aperta e tremante.
Natalie sapeva che non le era rimasto ancora molto tempo. Continuò a procedere con forza, aprendo la cavità toracica di sua madre con un forte – CRACK! - . Poi, Natalie infilò una mano all'interno e afferrò il cuore di sua madre, che stava pulsando debolmente nella sua mano.
I suoi battiti si stavano facendo via via sempre più deboli.
Improvvisamente, lei lo strappò fuori e il sangue schizzò sul suo viso. Fissò sua madre direttamente negli occhi, mentre lei stava lentamente morendo.
«Sogni d'oro!». Disse, rivolgendosi al suo cadavere.
«Il tuo tempo era scaduto». Infilò il cuore nella bocca di sua madre, accarezzando dolcemente le sue guance e poi, si alzò in piedi. Non aveva ancora finito.
. . .
Il padre di Natalie, David, si svegliò e realizzò che sua moglie non era ancora tornata. I suoi occhi iniziarono ad abituarsi lentamente al buio della stanza e improvvisamente, si accorse che Natalie si trovava in piedi, sul fianco del suo letto, sorridendo in modo malsano, con i suoi occhi verdi che brillavano nell'oscurità. Era coperta di sangue e l'odore era insopportabile.
Lei mise una finta espressione di tristezza. «Oh povero caro. Mamma ci ha lasciato! Mi chiedo chi porterà adesso i soldi». All'improvviso, afferrò suo padre per la fronte. «Questo è tutto quello che ti ha sempre preoccupato, non è così? Questo è tutto quello che ti importava!».
Suo padre, d'altra parte, era un lottatore, così in un mossa la afferrò per il collo e la atterrò al pavimento. Poi, aveva iniziato a schiacciare coi piedi il suo petto, finché non aveva sputato sangue. «Ti senti meglio, papà?». Tossì altro sangue. «Dopotutto, sembrava che volessi farlo già tanti anni fa, non è vero? ».
Lui ridusse gli occhi a due fessure. «Tu non sei mia figlia».
Un largo sorriso deturpò il suo viso e lo guardò, con i suoi occhi che brillavano nell'oscurità e il sangue che fuoriusciva dalla sua bocca. «Hai ragione. Io non lo sono».
D'un tratto, lei lo fece inciampare e lo fece cadere sul pavimento in un tonfo. Lei si alzò, brandendo i coltelli nelle mani. «Dicono che più stai in alto e più dura sarà la caduta!». Afferrò un cuscino e lo pressò con tutte le forze contro la sua faccia, finché ad un certo punto, non sentì anche un sonoro – CRACK! – quando il suo naso si spezzò. Quando tirò via il cuscino, la sua faccia era orribilmente sfigurata.
Lui si stava lamentando e piangeva dal dolore. «Che cosa c'è, paparino?! Il dolore è troppo insopportabile per te?!». Conficcò entrambi i coltelli nel suo stomaco, lasciandoli lì per il momento, quando andò a staccare due pesanti assi di legno dal letto.
Appoggiò le pesanti assi sul corpo di suo padre e poi, ci si sedette anche sopra, in modo che il suo peso facesse spremere le viscere fuori dal suo corpo. Il sangue fuoriuscì dalla sua bocca e il suo respiro, si fece silente. Lei si sforzò a mettere più peso sul suo corpo e improvvisamente, tutti gli organi esplosero fuori dalla sua carcassa. Lo spettacolo era raccapricciante e le viscere, ora erano accatastate ai lati del suo viso.
«Il tuo tempo era scaduto».
. . .
Finalmente, era venuto il momento della parte migliore.
Furtivamente scivolò dentro la stanza di suo fratello. Silenziosamente, aprì la porta, mentre il sangue continuava a grondare dalla sua bocca. Suo fratello non era a letto e sembrava che si stesse nascondendo, da qualche parte.
«Oh, caro fratellino». Iniziò a camminare dentro la sua stanza. «Tutto quello che volevo era solo divertirmi un po'». Come fece un passo in più, iniziò a prestare ascolto ai suoni della stanza e al rumore di qualche respiro soffocato. Aveva anche annusato l'aria per sentire il suo odore putrido e come si era messa ad ascoltare, finalmente si era accorta di un rumore. Un debole respiro.
*WHACK*
Lei cadde lunga distesa sul pavimento, tremante. Suo fratello era dietro di lei e nelle mani stringeva una mazza da baseball, ora insanguinata. La stava fissando con collera. Ansimando di rabbia, lei cercò di rialzarsi in piedi, ma lui la colpì di nuovo. «La mamma ha sempre fatto del suo meglio per te!». La colpì ancora per l'ultima volta, prima di prendere un attimo di respiro. Lei stava sanguinando copiosamente. Le sue palpebre si chiusero sui suoi occhi verdi che stavano brillando debolmente al buio. Si sentì debole e guardò il soffitto della stanza.
Si ricordò dei giorni che aveva passato in quel posto. Torturata per soddisfare le voglie di un fratello depravato per ben quattro anni. Una scossa di adrenalina rianimò il suo corpo. Iniziò a ridere in modo malsano. Suo fratello stava per colpirla ancora, ma lei usò entrambi i coltelli per bloccarlo.
«Stai per andare all'inferno, fratello». Con una forte spinta, spedì suo fratello contro il muro dall'altra parte del letto, facendogli sbattere violentemente la testa. Lui ringhiò di rabbia. Lei conficcò i coltelli nelle sue braccia, inchiodandolo al muro. Lui urlò e provò a divincolarsi inutilmente.
«Vediamo che cosa potremmo usare qui». Iniziò a camminare intorno la stanza e sogghignò, quando vide un coltello da burro dalla parte del letto. Lo afferrò e poi si avvicinò a lui. «Dicono che gli occhi siano la parte più soffice del corpo». Leccò il coltello. Lui era rimasto a guardare, impotente, mentre lei aveva iniziato ad asportare i suoi occhi. Urlò e lei gli ficcò un panno in bocca.
«Non posso lasciarti svegliare i vicini». Lui non era più in grado di vedere niente e il dolore aveva iniziato a diventare insopportabile. Il sangue zampillava copiosamente dalle sue cavità oculari. Natalie, afferrò un paio di forbici e si portò vicino a lui. «Penso che tu abbia bisogno di staccare la spina, fratello ». Conficcò le forbici nelle sue viscere e lui gridò.
Natalie, lo trattò come un 'arte e mestieri': tagliando la sua pelle come fosse carta. Poi, sollevò un lungo pezzo di intestino. «Sai cosa mi piace? La Macaroni Art!». Iniziò a tagliare l'intestino in sezioni. «Questi sono un po' troppo grandi per stare su un piatto, penso». Poi si abbassò alle dita dei suoi piedi e iniziò a tagliargliele via, una ad una.
Successivamente, gli ruppe tutte le dita delle mani. Ora, lui stava soffocando nell'odore nauseabondo del suo stesso sangue.
«Qui, fratello. Forse questo ti farà stare meglio». Gli infilò due dita giù nella sua gola. Dopo qualche minuto, lui soffocò e morì.
«Il tuo tempo era scaduto».
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La ragazza conosciuta col nome di Natalie, entrò nella sua stanza. In un angolo, vide la sua giraffa di stoffa. Lei la fissò e senza dire una parola, andò in bagno. Si guardò allo specchio e udì un ticchettio. Si guardò in basso e vide un orologio da taschino, lo fissò. Estrasse uno dei suoi coltelli, afferrò l'orologio da taschino e lo smontò, finché non ne era rimasto solo il quadrante.
«Il tempo ti fa vivere nella tortura». Disse piano.
Poi, iniziò lentamente a scavare nella sua cavità oculare, finché la vista dal suo occhio sinistro non divenne appannata e poi, iniettata di sangue. L'occhio cadde nel lavandino quando lo asportò. Ci fu un rumore come di qualcosa che veniva schiacciato, che durò fino a quando l'orologio non fu inserito perfettamente nella sua cavità oculare.
«Io... sono... Clockwork».
La ragazza di nome Natalie uscì dalla casa in fiamme.
Dentro, la giraffa di peluche, stava venendo consumata lentamente dalle fiamme, insieme al resto della sua famiglia.
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Horror© a Creepypasta Wiki Ita, Wicked69Soul e tanti altri #26 in Horror [16/12/2016]