Quarta prova

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Adrenalina.
E paura.
Le sentivamo entrambe, tutti e tre.

Una volta entrati in quella grande stanza, non troppo illuminata e decisamente polverosa, la prima cosa che notai fu il meraviglioso pavimento a scacchiera che si estendeva sotto i nostri piedini. Inizialmente pensai solo che chi avesse costruito quella stanza dovesse avere proprio un ottimo gusto, da sempre avevo una passione per gli scacchi.

Non ci vollero più di dieci secondi per renderci conto che però quella era una vera scacchiera. E che di fronte a noi, assolutamente enormi e maestose, si estendevano le pedine.

«Miseriaccia, è una scacchiera..» fui il primo a dirlo a voce alta e, alle mie parole, si accesero delle candele che ci permisero di osservare meglio quell'ambiente.

Era una stanza essenzialmente spoglia, soprattutto le pareti. L'unica cosa degna di attenzione sembrava la porta che si trovava oltre le pedine bianche. Quasi inconsapevoli, tentammo subito di raggiungerla, ma i soldati dei bianchi presero vita per sbarrarci la strada; riposero le armi solo quando avemmo fatto due passi indietro. Col tempo avrei scoperto che quella scacchiera era stata creata dalla professoressa McGranitt, per proteggere la stanza dove si trovavano sia la pietra filosofale che lo specchio dei desideri.

Il messaggio era chiaro.

In quel momento provai una forte emozione, diversa dalla paura o dall'epinefrina. A quei tempi, lo ricordo bene, ero solo un bambino dai capelli rossi e la toga di seconda mano. Un buffo e spaventato ragazzino che, a detta degli altri, si affiancava al bambino che è sopravvissuto per sentirsi un po' più coraggioso. Per quanto possa sembrarci sbagliato, quello che gli altri pensano di noi non ci è mai completamente indifferente. E, pian piano, mi ero immedesimato nella parte di quel ragazzino inesperto, la cui più grande impresa fino a quel momento era aver fatto diventare giallo il proprio topolino.

Per la prima volta però, non mi sentii così.

Su quella scacchiera sentii di essere io quello indispensabile. Non prendetelo per egocentrismo: semplicemente ero felice di poter aiutare i miei amici, di essere utile anche io.

«Cosa significa?» la voce acuta di Hermione, o almeno della piccola e bellissima streghetta che era allora, mi fece sobbalzare.

Come Harry, stavo ancora cercando di studiare la situazione sotto tutti i punti di vista. Ma l'esito era ovvio agli occhi di un giocatore assiduo: l'unico modo per passare dall'altra parte, oltre la porta ove si sarebbe celato Piton, era fare scacco matto al re dei bianchi.

«Non è ovvio?» risposi, nella mia voce c'era una punta di orgoglio «Dobbiamo giocare.»

L'espressione di Harry si fece curiosa, sicuramente stupito dalle sorprese che il Mondo Magico aveva appena iniziato a servargli. Mentre lo sguardo di Hermione.. quello non lo dimenticherò mai, sembrava sconvolta. Lei aveva sempre considerato gli scacchi magici come un gioco violento, antieducativo ed assolutamente inutile. Una volta mi ha raccontato che anche i babbani giocano a scacchi, ma in modo diverso ed assolutamente meno pericoloso.

"E allora che divertimento c'è?!" le avevo chiesto quella volta, mentre lei alzava gli occhi al cielo esasperata.

In quel momento sicuramente avrei rimpianto gli scacchi babbani.

«Dobbiamo ordinare alle pedine che mosse fare?» chiese la riccia; ed io mi ritrovai a sorridere fra me, la strega più brillante della sua età che mi rivolgeva una domanda stupida!

«No,» fu Harry a risponderle «in questo modo non potremmo passare comunque: l'unico modo è essere noi le pedine.»

A quelle parole seguirono pochi attimi di silenzio, densi d'indecisione ed inesperienza. Due cose caratteristiche dei bambini, ovvero di ciò che eravamo allora. Risulta bizzarro il fatto che poi, per gli anni a seguire, la nostra inesperienza avrebbe sconfitto il mago più oscuro di tutti i tempi.

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