Sesta prova

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Quando si corre troppo a lungo, accade sovente di dimenticare da cosa si sta scappando o cosa si vuole raggiungere.
Io avevo dimenticato entrambe.

Sapevo solo che avrei voluto fermarmi, avere il coraggio di voltarmi ed affrontare le mie paure, non solo quelle concrete.

Ero stanca di correre, di scappare. La seconda guerra magica aveva portato travagli e persecuzioni a tutti i mezzosangue, la mia famiglia era caduta, il mio sangue e le mie origini avevano scelto per me una vita che non mi andava più di vivere. Ed ora fuggivo dai dissennatori, nascondendomi fra gli alberi di un bosco fitto, sola e spaventata. Ma dentro di me sapevo da cosa fuggivo in realtà, cercavo di allontanarmi dai ricordi. E fuggire dai ricordi è un po' come fuggire da se stessi, si corre lontano e veloce, per poi accorgersi di essersi inseguiti da soli, come un cane che gioca a prendersi la coda.

Incespicai nelle radici di un grosso albero, caddi nel fango e la vista mi si offuscò. Dietro di me sentivo il freddo raggiungermi, l'inquietante silenzio di creature mute e terribili.

Rabbrividii, l'angoscia e la tristezza erano palpabili nell'aria, avrei tanto voluto ricordare come si facesse a sorridere.

La mano posata sul vetro di una camera d'ospedale, il freddo che mi irrigidisce le ossa e mi fa montare i brividi. Ma io leggo, sempre, cercando di ricavare forza da pagine che molti definirebbero aride. Era l'unico modo che conoscevo per andare avanti, aggrapparmi con tutta me stessa alle parole. Ero piccola, un'innocentissima bambina che ancora non sa di essere una strega. E mio fratello era dietro il vetro di quell'ospedale, due manine minuscole ed un sorriso stanco.
Sarebbe morto. Perché non era abbastanza forte, dicevano gli altri, ma come fa ad essere forte una creatura tanto piccola?

Mi rialzai e ripresi a correre. Volevo fuggire da quel ricordo, da quelle immagini tristi, non conoscevo altro modo di affrontarle.
Avevo passato la mia vita a scappare: io correvo e, un secondo dopo il mio passaggio, tutto veniva distrutto.

Poi, però, proprio in quel momento, come se qualcosa in me si fosse spezzato, presi una decisione. Capii che non si può fuggire sempre, che prima o poi bisogna che ci si volti e si affrontino le difficoltà. Il coraggio mi era sempre mancato: ero stata una corvonero, prima della guerra. Grifondoro, la casa dei coraggiosi e degli audaci, sarebbe stata l'ultima in cui mi sarei aspettata di finire. Non mi definivo una codarda, ma spesso la mia insicurezza mi bloccava e le mie paure più grandi prendevano il sopravvento senza che potessi fermarle.

Non quella volta.

La bacchetta stretta saldamente nella mano destra, i capelli davanti agli occhi e le labbra tormentate dai denti, mi fermai di colpo. Mi voltai e piantai con forza i piedi per terra, negli occhi le lacrime si tenevano al limitare delle palpebre. Sollevai la bacchetta, la mano mi tremava ed il cuore avrebbe potuto schizzarmi fuori dal petto da un momento all'altro.

Tre dissennatori si avvicinavano, i volti nascosti da un mantello scuro, ne spuntavano solo le mani, decrepite e decomposte, come quelle di cadaveri volanti. Avanzavano, lugubri, crudeli, creature che di altro non si nutrono se non dei ricordi felici. Succhiano i sentimenti, amano ingoiarli, farli sparire per sostituirli con il terrore. I dissennatori sono privi di valori, estranei al perdono o alla ragione. E ciò che più temevo era il loro silenzio, perché mi riportava alla mente voci passate e vivide insieme, momenti dimenticati che tornano alla superficie tetra delle cose.

Come potevo fare della mia più grande paura un'arma?

Un senso di freddo, di angoscia e tristezza mi pervase. La consapevolezza di essere giunta alla fine, il traguardo di una gara persa in partenza.

Un sorriso sdentato, incorniciato da un volto piccolo e rotondo, due occhi vispi e castani, dello stesso colore dei miei, che mi scrutano divertiti.

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