Non ce la faceva già più. Stava affogando, non riusciva a respirare, il panico gli riempiva la mente. E pensare che non poteva morire.
Ma nemmeno nuotare.
Il viso duro dell'uomo che lo aveva buttato nel fiume sorrideva beffardo sul ponte, mentre Gilbert annaspava nell'acqua gelida.
- Tu non puoi rappresentare il nostro popolo.- E avevano preso il bambino di peso, trascinandolo verso il terrore.
"Calma", si disse Gilbert. Doveva pensare. L'acqua era vorticosa e subdola; sembrava che qualcuno lo stesse trascinando verso il basso. Una volta, Vater gli aveva raccontato la storia di uno spirito del fiume che trascinava le persone cattive tra i suoi gorghi e mulinelli. C'erano anche tante favole che parlavano dei fiumi: di solito finivano bene, e a Gilbert piacevano tanto le acque solitamente placide e tranquille.
Non come quelle in cui era immerso in quel momento. Gilbert veniva sbatacchiato di qua e di là dalla corrente, cercando invano un appiglio. Era come un uccellino durante un temporale.
- Dai, fai qualcosa! Stai diventando noioso!- gridò l'uomo di prima, il capovillaggio. Uno scoppio di risa fece eco alle sue parole. Il bambino riuscì ad aggrapparsi a una roccia. Era scivolosa e tagliente. Si strinse all'appiglio e chinò la testa, le lacrime che aggiungevano massa a quel naturale strumento di tortura.
- Facci vedere i tuoi occhi del diavolo!- urlò un giovane. Prima che iniziasse tutto, suo padre Eilmar regalava sempre a Gilbert le focaccine dolci, quelle con l'uva e lo zucchero. Seguì l'ennesima risata collettiva.
La roccia iniziava a tagliare le mani di Gilbert, già coperte di graffi più o meno gravi. Sottili rivoletti scarlatti scivolarono verso il fiume.
- Piccolo albino, Dio ti ha maledetto!-
Una pietra bianca e tonda cadde accanto al bambino, sollevando una corona di spruzzi. Lo stesso accadde, stavolta più vicino alla testa di Gilbert. La quinta pietra colpì una mano.
Il piccolo gemette di dolore, staccando velocemente la manina insaguinata dalla roccia. Perse la presa. Lo spirito del fiume lo riteneva una persona cattiva? Per i suoi occhi? Non era colpa di Gilbert, se aveva gli occhi rossi. Rossi fuoco, rossi sangue. C'era chi diceva che Satana lo aveva posseduto. Chi sosteneva che non fosse mai stato battezzato. Chi mormorava di una maledizione divina. Però Gilbert aveva gli occhi rossi e i capelli bianchi, proprio come quel cattivo stregone della tradizione popolare.
Sapeva di essere fuori dal comune. E personalmente, si piaceva. Gli piaceva essere diverso, particolare. Ma agli altri no, evidentemente.
La corrente era fortissima, e Gilbert non era minimamente in grado di controllarla. Sentiva le risate a tratti nitide e poi ovattate, emergendo e rientrando nell'acqua. Vedeva piccole chiazze scure danzare nell'aria come tante fatine maligne. Il suo mantello bianco, con la croce teutonica ricamata sopra, lo trascinava ancora di più verso il fondale.
Sembrava così tranquillo, là sotto. Un regno di pace dolce ed eterna, dove sarebbe stato per sempre felice e beato, senza più accuse o diffidenze.
La mente di Gilbert, sebbene appannata dal panico, sbarrò la strada a quei pensieri insani. Il suicidio era una tentazione di Satana. Era vietato.
Il bambino chiuse gli occhi, mentre la mancanza d'aria lo soffocava.- Ehi? Sei vivo?-
Gilbert spalancò gli occhi, immediatamente. Poi si pentì, e altrettanto velocemente li richiuse.
Sentì la punta di una scarpa da bambino colpirgli il braccio, in un calcio delicato.
- Che suc...cede...?- bofonchiò. Aveva la bocca impastata e la voce bassa quasi come quella del Vater.
- Ti ho trovato alla riva del fiume. Sei vivo o sei una specie di fantasma?-
- No, credo...credo di es...essere vivo...- Gilbert riflettè. Non voleva aprire gli occhi: chi gli assicurava che quel bambino non corresse al villaggio dicendo di aver trovato l'albino ancora vivo e vegeto? Però poteva parlare e presentarsi. Magari dicendo solo il nome del territorio che rappresentava.
La voce del bambino sconosciuto era decisa, forse un po' effemminata, ma piena di determinazione.
- Allora, visto che sei vivo, chi sei?-
- Prussia...-
- E basta?-
Gilbert annuì.
- Oh. Io sono Ungheria. Mi chiamo Erszébet Hèdrèvary.-
Erszébet non era l'ungherese per Elsbeth, un nome femminile? O forse era usanza chiamare gli uomini con nomi da donna? Strana gente, gli ungheresi.
- Mi spieghi che ti è successo, Prussia?-
- Sono...caduto nel fiu...fiume.-
Erszébet alzò un sopracciglio. - Devi essere proprio idiota, per cadere nel fiume. E i vestiti bruciacchiati, scusa?-
Gilbert voltò la testa verso la manica della casacca e la tastò con l'altra mano. Era davvero bruciacchiata. Ebbe un flashback di sé stesso, circondato da lingue ardenti di fiamme.
- Sono...caduto nel camino.-
- Riformulo: sei idiota.-
- E tu sei antipatico.- Gilbert si alzò faticosamente a sedere ed Erszébet si lasciò cadere accanto a lui, nell'erba rugiadosa.
- Apri gli occhi.- ordinò il piccolo ungherese.
- No.-
- Perchè?-
- Perché...sono cieco.-
- Ciò spiegherebbe perché sei caduto prima nel camino e poi nel fiume - constatò Erszébet, la voce pensierosa, - ma non perchè tieni gli occhi chiusi. Allora? Aspetto una risposta.-
- Se li apro mi fanno male.- sparò Gilbert. Non era poi così diverso dalla realtà; la luce troppo forte gli faceva davvero male.
Erszébet gli mise un braccio sulle spalle. Gilbert ebbe una specie di brivido caldo, che non riuscì a identificare in alcuna sensazione già vissuta.
- Ti senti bene o hai bisogno di cure?-
- Sto bene.-
- No, non stai bene. Vieni con me.-
Erszébet aiutò Gilbert ad alzarsi. Entrambi erano piuttosto goffi di movimenti, e rischiarono di cadere circa tre volte in due metri.
- E meno male che stavi bene!- esclamò l'ungherese, sorreggendo Gilbert dopo l'ennesima caduta.
- Pensavo di stare bene!-
- Sì, va bene, hai ragione tu.-
Battibeccarono tutta la strada. Gilbert sentiva il sole caldo sulla pelle, odore di pane appena sfornato e una brezza leggera, ma non aveva il coraggio di aprire gli occhi. E pensare che da piccolo adorava avere gli occhi rossi.
Quando la luce che filtrava dalle palpebre arrivò ad essere quasi assente, Erszébet sbuffò.
- Siamo arrivati.-
- Ehm...siamo arrivati dove?-
- A casa mia, forse? Vivo in un castello grandissimo! Sicuramente più grande del tuo!-
Il braccio si sollevò dalle spalle di Gilbert. Un fischio acuto e prolungato risuonò nell'aria.
- Sai fare il fischio con le due dita?-
Anche se non poteva vedere, il piccolo Prussia si immaginava due occhi verdi guardarlo con indignazione per la domanda appena fatta.
- Ovvio! Chi è che non sa fischiare, eccetto te?-
Quello che probabilmente era un portone si aprì con un cigolio.
- Oh, Santo Dio! Chi è questo bambino, Erszébet? E perchè non apre gli occhi?- disse una voce di donna. Aveva un tono materno e preoccupato. Sembrava una persona per bene.
- Non lo so, Letícia. È sbucato dal fiume, io l'ho salvato e lui non dice nulla! Davvero, non ha risposto praticamente a nessuna delle mie domande! - replicò Erszébet, palesemente irritato.
Letícia ridacchiò. - Sì, e sappiamo tutti quanto il signorino odia le domande senza risposta, vero?-
- Sì! Quindi, potresti dirmi come ti chiami? Almeno quello!- protestò il bambino.
- Mi chiamo Gilbert! E potresti lasciarmi in pace, per favore?- sbuffò Prussia, incrociando le braccia sul petto. Pessima idea. Evidentemente, la ferita alla spalla ci metteva un po' a guarire.
Erszébet aveva già preso fiato per ribattere, ma la donna lo fermò.
- Gazda, stai calmo. Quante volte ti ho detto che sei troppo attaccabrighe?-
- Tante...ma insomma, un po' di rispetto!-
Letícia sospirò e prese per mano Gilbert. - Poverino, cosa sono queste ferite? Szent Isten! Questa è grave, Gilbert!- esclamò la donna, accarezzando un profondo taglio che aveva miracolosamente smesso di sanguinare. - Vieni con me. Erszébet, non distruggere nulla nell'arco della prossima mezz'ora, va bene, gazda?-
La voce del bambino si levò limpida nell'aria. - Sì, múmia!-
- Allora vieni qua.- mormorò Letícia, prendendo in braccio Gilbert.
Il bambino si sentiva strano. Era la prima volta che una donna lo prendeva in braccio. Era abituato alla stretta solida e al petto ampio del Vater, ma non gli dispiaceva il tocco materno e la pressione leggera delle mani di Letícia sulla schiena.
Inoltre avrebbe voluto con tutte le sue forze aprire gli occhi. Dietro le palpebre chiuse erano gonfi e addormentati. L'ultima cosa che avevano visto era stato uno spiraglio di luce, quella mattina, prima di accorgersi di Erszébet. Non aprire gli occhi per paura di essere visto da un bambino rompiscatole...se ci fosse stato il Vater, probabilmente gli avrebbe dato del codardo.
A proposito...il Vater! Si sarebbe preoccupato, non vedendolo tornare?
- Eccoci qua.- Letícia depose per terra il bambino. - Ora ti metto delle bende sulle ferite più gravi...ma come te le sei fatte?-
- Sono...caduto nel camino e nel fiume.-
- Átkozott! Eri un po' addormentato?-
- ...Un po'.-
Letícia fece una risatina nervosa, rovistando tra barattoli in vetro e in legno che producevano suoni sordi e fastidiosi. - Bambino mio! Ma come hai fatto a cadere nel camino e poi nel fiume? Capisco che tu non possa morire, forse sei come il mio gazda e sei praticamente immortale...Ma come hai fatto?-
Gilbert non rispose, sentendo le lacrime salirgli in gola.
- ...Gilbert? Tutto bene?-
'Non ora', pensò il bambino. Quando piangi, devi aprire gli occhi.
'Non piangere.'
'Non piangere.'
'Non piangere.'
Un singhiozzo scosse le spalle di Gilbert e una lacrima affiorò tra le palpebre serrate.
- Oh, Szent Isten! Gilbert, cosa c'è? Come mi dispiace vedere un bimbo che piange! Su, bel bambino, qual è il problema? Dillo alla tua Letícia!- si spaventò la donna. Gilbert singhiozzò una seconda volta e, per il contraccolpo, aprì quasi impercettibilmente l'occhio destro. Dopo una giornata passata al buio, tutto era sfocato e confuso. Il bambino riuscì a distinguere solo una macchia nera, rossa e bianca che si muoveva su uno sfondo marrone. Poi richiuse l'occhio.
- Hai aperto l'occhio! Allora puoi! Su, fammi vedere che begli occhioni che hai! Biondo come sei, saranno di un bell'azzurro, no?-
Sempre singhiozzando, Gilbert scosse la testa.
- Allora saranno verdi? O castani? O neri?- chiese Letícia. Non capiva la situazione. Quel bambino era veramente strano. Aveva i capelli bianchi come quelli della sua vecchia nonna, non apriva gli occhi ed era sbucato dal fiume con addosso una casacca bruciacchiata. Chi era?
Gilbert aprì gli occhi, di scatto.
In seguito, si sarebbe chiesto cosa lo avesse indotto a farlo, e non avrebbe trovato risposta. Era sempre stato un tipo un po' sconsiderato, e Letícia gli ispirava fiducia.
La donna si portò le mani al petto.
- Átkozott!-
Gilbert sbattè le palpebre un paio di volte, infastidito dalla luce del sole che filtrava da una finestra di legno. Letícia gli passò una mano tra i capelli. - Hai tenuto gli occhi chiusi per tutto questo tempo...solo per questo?-
Il bambino annuì e tirò su con il naso.
Letícia si inginocchiò davanti a lui e lo strinse in un abbraccio. - Va tutto bene. Solo, credo che dovresti dirlo al signorino Erszébet, no?-
- Sì...-
La donna fece una risatina. - Hai per caso paura del mio gazda?-
- No, certo che no!- urlò Gilbert, sentendosi avvampare. A volte è proprio vero che essere pallidi è uno svantaggio.
- Allora vai, su!-
Gilbert aprì timoroso la porta e uscì dalla stanza. Si trovava in un lungo corridoio di pietra, con il pavimento coperto da pesanti tappeti. Mosse qualche passo incerto e si voltò verso la porta della stanza, dove Letícia gli sorrideva.
Sei un soldato, un guerriero! Quante volte glielo aveva ripetuto, il Vater?
Il bambino percorse il corridoio, con la mano sull'elsa della sua spada d'argento in versione ridotta.
Gilbert era sempre stato troppo timido. Timido, insicuro, riservato. Tutte caratteristiche che non possono convivere in un guerriero.
Una porta, in fondo al corridoio, era aperta. Il bambino si affacciò e sbirciò dentro; Erszébet stava combattendo contro un manichino di paglia. Menava fendenti ora sfiorando a malapena il fantoccio, ora staccandogli di netto un braccio. Il modo in cui si destreggiava con la spada ricordava a Gilbert un vecchio amico del Vater, il signor Romolo, o meglio Impero Romano. Romolo combatteva con il sorriso sulle labbra, inventandosi a casaccio nuove tecniche pur di confondere l'avversario.
Erszébet faceva lo stesso. Quando si decise a dare il colpo di grazia al finto avversario, conficcò la spada nel cuore disegnato sul petto del manichino, si voltò all'indietro e fece un inchino all'arazzo sulla parete.
- Köszönöm, köszönöm!- ringraziò il bambino. Poi si voltò verso la porta.
- E tu cosa ci fai qui? Aspetta...gli occhi...- ammutolì il piccolo ungherese, fissando il viso di Gilbert.
Gilbert rimase momentaneamente senza fiato. Gli occhi di Erszébet erano verdi, proprio come li aveva immaginati. Erano verdi come gli alberi nel fitto della Foresta Nera.
- Sie haben schöne Augen...- bofonchiò Gilbert tra i denti. Chissà se qualcuno avrebbe mai detto lo stesso dei suoi.
- Mi spieghi perchè sono rossi?-
Il bambino sbattè le palpebre un paio di volte.
- In che senso?-
- Nel senso, perché sono rossi?-
- Non lo so, ci sono nato...-
Erszébet sbuffò. - Peccato, due occhi così fanno paura. Sono da tipi duri. Non le femminucce come te! Hai mai usato quella spada?- chiese, indicando il fodero bianco dell'arma di Gilbert.
- Certo che l'ho usata! E una volta ho quasi sconfitto un tipo che era il doppio di me!- Naturalmente era una frottola bella e buona, ma visto che Erszébet non era rimasto turbato per la faccenda degli occhi, perchè rovinare tutto?
Erszébet prese per mano Gilbert. Aveva una mano incredibilmente calda e morbida. I due bambini si fissarono a vicenda.
- Sei un bugiardo esibizionista, Gilbert. Ma sei anche timido. Invece devi essere forte! Devi vincere tutte le guerre, e le battaglie!-
- Perché?-
- Sei una Nazione?-
Gilbert annuì, confuso. - Sì, te l'ho già detto.-
- E allora, per sopravvivere devi combattere!- gridò Erszébet. Negli occhi aveva una specie di furia, di rabbia ancestrale. Faceva paura. Proprio come faceva paura la sua lama scintillante, sollevata sopra Gilbert.
- Aspetta, cos...- mormorò il bambino. La spada di Erszébet fece un lungo squarcio nella manica della casacca bianca. Gilbert si guardò il braccio, sconcertato.
- Visto? Se avessi reagito, la tua manica sarebbe ancora intera.-
- I...io...-
Erszébet lo zittì con un gesto. - Non dire niente, ricorda e basta.- Poi lo prese di nuovo per mano e lo condusse al portone del castello, camminando lentamente sui numerosi tappeti.
Gilbert era sconcertato. Gli sembrava di essere tornato tra i mulinelli del fiume. In effetti, quel bambino ungherese era un mulinello di azioni, di domande, di emozioni. E gli aveva chiesto di cambiare. Erszébet Hèdrèvary gli aveva chiesto di cambiare.
E Gilbert sarebbe cambiato, per lui.
C'era un problema, però; era difficile cambiare vita e carattere quando la gente ti odiava e non desiderava letteralmente altro che vederti morire. Forse poteva vivere nella foresta. La notte è un po' spaventosa, e tante leggende raccontano di bambini sbranati all'ombra degli alti alberi, ma dopotutto per cambiare ci vuole sacrificio, no? Il Vater lo avrebbe aiutato. Non era lui che passava le giornate a cercare di farlo diventare un kämpfer, un combattente?
- Allora, vai da solo a casa? Deve essere piuttosto lontano da qui...-
Gilbert si riscosse dalle proprie riflessioni.
- Sì, vado da solo.-
Rimasero un bel po' a guardarsi, senza sapere cosa fare. Poi Gilbert abbracciò Erszébet, di propria iniziativa. Era così caldo e forte. Senza dire una parola, Prussia uscì dal castello. Camminò sul prato verde come gli occhi di quel piccolo ungherese provando una strana sensazione di mancanza.
Arrivò alle mura esterne. Un attimo prima di uscire definitivamente da quella casa, si voltò. Erszébet era ancora sulla porta, che lo guardava camminare. Agitò la mano, e Ungheria rispose con un sorriso.
- Du bist das Schönste, was ich je gesehen habe!- gridò Gilbert, con il cuore che gli batteva a mille. Tanto non avrebbe capito, non sapeva la sua lingua, no?
- Szeretem a szemed!- rispose Erszébet in lontananza.
Prussia sorrise tra sè e sè e uscì dal castello. Non aveva capito, ma probabilmente ci sarebbe stato altro tempo per i chiarimenti.Qualche secolo più tardi, Roma
- Mein Gott, che caldo- sbuffò Gilbert, steso su una panchina in una pittoresca piazza di Roma.
Elizabeta gli spiaccicò la guida in faccia. - Datti da fare, che ti rinfreschi.-
Il ragazzo prese la cartina contenuta nel libretto e la fissò con occhi vacui per circa una frazione di secondo. Poi scosse la testa e si appoggiò di nuovo la guida sulla fronte, a mo' di ghiacciolo. - Non ho idea di dove sia l'Isola Tiberina, Eli! Credo sul Tevere!-
Elizabeta sospirò e controllò l'orologio. - Lo sapevo, se chiedevamo a Roderich di accompagnarci avremmo trovato la casa di Feli in tre secondi.-
- Il verginello isterico? No! Mai nella vita!-
- Mi spieghi che cos'hai contro di lui? È un bravissimo ragazzo!- esclamò Elizabeta.
- Se non la smetti, ti chiamo Erszébet.-
Quella sì che era una minaccia. La ragazza odiava essere chiamata con il nome di quando era piccola, lo sapevano tutti.
- E io ti chiamo "quello vestito di bianco, che fino a ieri nemmeno sapevo che esistesse".-
- Colpo basso.- mormorò Gilbert alzandosi dalla panchina per guardare la mappa della città insieme a Elizabeta. Inutile, un procione ubriaco aveva più senso dell'orientamento.
- E se camminassimo senza meta finchè non ci imbattiamo in un conoscente o nell'Isola Tiberina?- propose la ragazza.
- È un'idea.-
E così, come due perfetti idioti, Elizabeta e Gilbert partirono alla volta del nulla più completo.
Roma era bellissima, come al solito. L'atmosfera un po' assonnata e intrisa di antichità era magica, e sembrava portarlo indietro nel tempo, quando viveva con il Vater. E perciò anche il suo primo incontro con Elizabeta. Lei (o lui, a quei tempi) gli aveva chiesto protezione per le sue terre, e lui le aveva riso in faccia. Per poi acconsentire. Ma Gilbert sentiva che mancava qualcosa. Aveva davvero conosciuto la sua Eli quel giorno? O c'era qualcosa prima?
Se c'era, doveva essere davvero molto antico. Agli inizi del Medioevo.
- Un gelato?- propose Elizabeta, indicando una gelateria artigianale all'angolo della strada. Gilbert annuì.
- Entro io. Come lo vuoi il gelato?- chiese Ungheria, sorridendo.
- Quello che prendi tu.-
La ragazza sbuffò. - Se ti aspetti uno sclero del tipo "awww, come sei carino", scordatelo.-
- Tentativo fallito, okay.-
Elizabeta scosse la testa e si avviò verso la gelateria. Gilbert osservò la sua andatura decisa sulle vecchie scarpe da tennis scarabocchiate a pennarello con tante bandierine ungheresi. Davvero, c'erano altri ricordi prima di quella richiesta di protezione? Andò a sedersi di nuovo su una panchina mezza rotta.
- Ehi.-
Gilbert si voltò. A parlare era stato Lukas, quel ragazzo che rappresentava la Norvegia.
- Ciao, Lukas! Tutto bene? Certo, ora ci sono io, quindi va tutto bene. Cosa ti porta qui?- rise Gilbert, dandogli una pacca sulla schiena. Lukas rischiò di cadere in avanti e si mise a distanza di sicurezza. - C'è il meeting a casa di Feliciano, no?- mormorò, con la sua solita aria distaccata e un po' sognante.
- Giusto! Senti, avverti pure che nè io nè Elizabeta ci saremo. Ci si vede!- salutò Gilbert, con un sorriso smagliante, per poi voltarsi e fingersi molto interessato a un barboncino che passava di lì. Lukas lo guardò stranito e si allontanò.
Abbandonato il barboncino, Gilbert sospirò. Si era tolto un peso.
- Stai riflettendo sui massimi sistemi o vuoi il gelato?- sbraitò Elizabeta, appena uscita, con la sua solita dolcezza e femminilità.
Gilbert si alzò dalla panchina e la baciò, quasi rovesciandola all'indietro.
- Ma che caz...- mormorò la ragazza, per poi rispondere al bacio.
Gilbert sorrise mentalmente. Aveva un gelato da mangiare, una città da esplorare e una serata da trascorrere con la persona che amava di più al mondo.
Chi se ne importa di un ricordo lontano?Spazio dell'idiota
CIAO!
- cit. Gianni Morandi
~~~
Bene, detto ciò, posso affermare di avere appena partorito. Questa one-shot è stata davvero una sfida. Ragazzi, non sono Manzoni, quindi è una sploff lo stesso ma vabby.
E pensare che all'inizio avevo un'idea completamente diversa.
Lol.
Sono coerente.
MA CHISSENE :D
Inoltre ci sono tipo un sacco di termini in tedesco e in ungherese, che io non so assolutamente perchè so parlare solo inglese e un po' di francese accennato. La prossima la faccio FrUk, magari.
Anyway, il succo del discorso è che, se qualcuno di voi sa il tedesco o l'ungherese e nota degli errori deve avere pietà di me, perché ho usato Google Traduttore.Vado a volare sulle note di Misery dei Green Day.
hetariosa Ce l'ho fatta OuO
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Hetalia: one-shots
Фанфик• 1: PruHun • 2: FrUk • 3: GerIta • 4: GerIta • 5: PruHun [Prossimamente, una DenNor, una LietPol e un mix di un sacco di roba] Comunque, io sono una simpatica idiota che siccome non sa cosa fare, si allena a scrivere one-shots. Sì, la mia vita è be...