Once I was seven years old my momma told me
Go make yourself some friends or you'll be lonely
Once I was seven years oldFarsi degli amici. Suonava facile, a pensarlo. A farlo, per niente. O almeno, per niente se vieni dai quartieri più poveri di New York. Questo pensava Gilbert, in piedi davanti alla sua nuova scuola. Sapeva benissimo che, viste le condizioni economiche della sua famiglia, a Berlino non era possibile condurre una vita dignitosa. E allora, tutti in America! Evviva, senza sapere nemmeno una parola di inglese! Con Gilbert che aveva sei anni e Ludwig che ne aveva quattro! Questo era successo, l'anno prima: erano dovuti partire, lasciando nonno Fritz a casa. Ora Gilbert sapeva parlare l'inglese sicuramente meglio dei suoi genitori. Ma non si sentiva ancora pronto ad andare a scuola. Aveva un buffo accento tedesco e non aveva i vestiti puliti e della taglia giusta che portavano i bambini americani. Non poteva riuscire a integrarsi. Non era umanamente possibile. Dopotutto, nel suo quartiere in pochi sapevano leggere e scrivere. Per esempio, quel tredicenne italiano di nome Lovino non sapeva farlo. E suo fratello Feliciano (il migliore amico di Ludwig) stava imparando a casa, grazie a suo nonno. Anche Wang, che offriva sempre a tutti i suoi deliziosi manicaretti cinesi era analfabeta. Che bisogno c'era di andare a scuola? Poteva andare anche lui da nonno Romolo! Ma la mamma diceva sempre che non poteva restare con un piede in America e uno in Germania. Quindi, doveva andare a scuola. Dalla parte opposta della città, un'ora a piedi tra strade da attraversare e imprevisti vari. In un istituto di terz'ordine, per pagare poco. Ma soprattutto, frequentato principalmente da americani. Non gli americani dei quartieri alti, che vivevano tra luci e glitter. Gli americani duri, quelli che speri di non incontrare mai in un vicolo buio.
Gilbert si guardò intorno. Non era riuscito a comprare la divisa, e la mamma gli aveva scritto una nota per l'insegnante in un inglese il più possibile privo di errori. Lo avevano fatto correggere da quel tizio irlandese dalla sopracciglia improponibili, Arthur Kirkland. La cosa che gli diede più noia fu che tutti sembravano fare amicizia nel giro di cinque minuti. Anche i genitori dei bambini, che nella maggior parte dei casi accompagnavano i pargoletti, parevano già amici da una vita. Solo una bambina sembrava non essere già dedita a ridacchiare con le nuove amiche. Era bassa, con i capelli castani spettinati che le scendevano sulle spalle. La sua divisa era stropicciata e impataccata, ma almeno esistente. Lanciava occhiatacce a chiunque osasse sorriderle con uno scintillio minaccioso nello sguardo verde intenso. Non era americana, questo si capiva. A Gilbert stava già simpatica solo per quello. Si avvicinò a lei, dubbioso, con la borsa dei libri comprati con tanta fatica che pesava il doppio di lui.
- Ehi.- salutò, timoroso. - Mi chiamo Gilbert. Tu?-
La bambina si voltò verso di lui. Aveva un'aria maestosa, da regina.
- Elizabeta.-
Seguì una piccola pausa, durante la quale i due si studiarono a vicenda.
-Sei di qui?- chiese Gilbert.
- Vengo dall'Ungheria.-
Gilbert sorrise istintivamente. Wang ripeteva sempre un vecchio proverbio cinese: "Quando connazionali si incontrano, gli occhi si riempiono di lacrime di goia". Evidentemente non valeva solo per i connazionali.
- Io dalla Germania.-
Anche gli occhi di Elizabeta si illuminarono.La campanella suonò. Gilbert infilò velocemente i libri nella borsa e si precipitò fuori dalla classe, mentre gli altri chiaccheravano e commentavano i colori della divisa, che sembravano non essere di gradimento di diverse bambine. Appena prima di uscire, agitò la mano in direzione del maestro, il signor Jones. Era un signore giovane, con un'umana pancetta e gentile. A Gilbert piaceva un sacco. Non lo aveva rimproverato per la mancanza della divisa. Lo aveva invitato ad alzarsi per le presentazioni, come tutti gli altri, senza parlare lentamente per il timore che non capisse. Non aveva riso del suo accento strano e delle "r" arrotolate. Gli aveva addirittura chiesto come si diceva "ciao, mi chiamo Alfred" in tedesco, spiegando con un sorriso che aveva intenzione di andare in vacanza in Germania. Era proprio un uomo gentile. Gilbert saltò gli ultimi scalini delle scale, con la mente rivolta ad Elizabeta. Avevano fatto prestissimo a cominciare a ridere e parlare come vecchi amici, e si erano dati appuntamento al grande albero accanto alla scuola. Avendo scoperto di vivere vicini, intendevano tornare a casa insieme. Sembrava proprio l'inizio di un'amicizia fantastica. Gilbert uscì nell'aria frizzante del cortile e guardò subito sotto l'albero. Bene, Elizabeta non era ancora arrivata. Gli piaceva essere puntuale, avere tutto sotto controllo. Era la sua natura. Gilbert si accomodò sotto l'albero e lo guardò dal basso. Sembrava fortissimo. Se lo avesse dovuto associare a un sentimento, sarebbe stato proprio la forza. Forza, stärke. Non era un brutto nome per un albero. "Oggi ti va di incontrarci da Stärke?" "Perchè no? È un albero gentile!"
- Gilbert? Ci sei?-
Gilbert abbassò lo sguardo su Elizabeta. Adesso la bambina sfoggiava un adorabile sorriso che scavava una fossetta nella guancia sinistra.
- Sei più carina quando sorridi, lo sai?- disse il piccolo albino, con un'espressione strafottente volta a nascondere il complimento appena fatto. Elizabeta alzò un sopracciglio, recuperata l'aria di superiorità. - Lo so. E tu sei più carino quando non ci sei.-
Scoppiarono a ridere, senza fare caso a quello che si erano appena detti.
- Allora, andiamo? Mia mamma si preoccupa.- disse Elizabeta, sistemandosi meglio la borsa sulle spalle.
- Aspetta un attimo. Che emozione rappresenta per te quest'albero?- chiese Gilbert, indicando la vasta chioma gialla e marrone grazie all'autunno.
- Un'...emozione?-
- Sì, un'emozione.-
- Be', penso la forza. Sembra proprio forte.- riflettè la bambina, penseriosa.
Gilbert battè le mani. - Allora per noi l'albero si chiamerà Stärke! È tedesco, non è una bella parola?-
Elizabeta sorrise. - Certo che lo è. Ma ora andiamo a casa, che ne dici?-
- Okay.-
Chiaccherando tranquillamente dei compagni di classe, si incamminarono verso i quartieri degli immigrati. Elizabeta gli stava raccontando di un tizio di origine austriaca che si comportava in un modo buffissimo, quando Gilbert, passando davanti a un vicolo, intravide una faccia conosciuta. I capelli castani, i diffidenti occhi verdi, i gesti esagerati. Era proprio Lovino Vargas. Teneva in mano una bottiglia verde, la testa spettinata abbandonata contro il muro. Accanto a lui, seduto per terra, c'era un altro ragazzo, quindici anni al massimo, con una sigaretta piuttosto lunga in mano. Anche lui era castano con gli occhi verdi, ma le sue pupille, anche da lontano, sembravano opache. Quasi morte.
- Gilbert, andiamo via.- sussurrò Elizabeta. Fissava la bottiglia che aveva in mano Lovino come se fosse stata piena di cianuro. L'altro ragazzo tossì.
- LOVINO!- chiamò Gilbert, correndo verso di lui. Non sapeva perchè, ma quella situazione aveva qualcosa di sbagliato. Di strano.
- Cazzo!- farfugliò Lovino, voltandosi verso di lui. Buttò la bottiglia contro il muro opposto e diede un calcio al ragazzo seduto lì accanto. - Anto', spegni la canna. E tu, che ci fai qui?-
Gilbert indicò la bottiglia rotta. - Che cos'è? E cosa stava fumando lui?-
Lovino lo prese per le spalle. - Non andare a dirlo a mio nonno. Se lo fai, giuro che ti spacco la testa. Ci siamo intesi?-
Gilbert annuì. - Ma perchè non posso dirglielo?-
- Perchè...io e Antonio facciamo cose che non andrebbero fatte.- spiegò Lovino, con la voce stanca. A volte, sembrava avere ottant'anni invece che tredici.
- E allora perchè le fate?- intervenne Elizabeta, che fino a quel momento aveva fissato terrorizzata i resti della bottiglia.
Antonio sorrise, dal basso. Il suo sorriso era spento, proprio come gli occhi. - Il mondo è tanto grande. È bello provare a pensare di essere più grandi di lui, non credi? E c'è gente che ha bisogno di esserlo. Per esempio, Lovino ha bisogno di avere più forza del mondo. Anche io ne ho bisogno. Però voi trovate un altro modo, okay? Non fate come noi.- E Antonio si rimise la canna spenta in bocca, aspirando lentamente, con gli occhi chiusi.
Gilbert ed Elizabeta tornarono a casa.
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Hetalia: one-shots
Fanfiction• 1: PruHun • 2: FrUk • 3: GerIta • 4: GerIta • 5: PruHun [Prossimamente, una DenNor, una LietPol e un mix di un sacco di roba] Comunque, io sono una simpatica idiota che siccome non sa cosa fare, si allena a scrivere one-shots. Sì, la mia vita è be...