II

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La luce baluginante dei lampioni infiammava la criniera di vetro rosso del cavallo impennato dell'insegna, e faceva scintillare la scritta "Incubi sereni", lasciando presagire una notte di fuoco.

Valentine spinse la porta del bordello e venne immediatamente accolto dall'intenso profumo di incenso e rose che aleggiava nell'aria, sprigionato dai bracieri dalle forme sinuose ed eleganti, stipati in punti strategici e nascosti. Come ogni notte, il bordello era affollato.

In quella città tetra, annerita dai fumi delle fabbriche e del treno che sferragliava poco lontano dai condomini popolari, gli unici colori e suoni che animavano i vicoli spenti e silenziosi erano le luci vellutate dei bordelli o gli schiamazzi degli ubriachi nei Salon. Lì poveri operai disperati, borghesi indaffarati e ricchi aristocratici annoiati soffocavano il grigiore della loro monotona vita in un amore fugace, che si spegneva all'alba assieme alle stelle, o in un bicchiere di vetro o peltro, a seconda di cosa potessero permettersi.

Valentine scorse con lo sguardo le pareti d'oro, su cui si aggrovigliavano i gambi dei lampadari a forma di tulipani, nella cui corolla si accendevano lampadine dai toni caldi e sfumati. Scese lungo i divanetti in pregiati tessuti dai rossi intensi, su cui giacevano Succubi dai capelli ancora più rossi, o neri, come la più fonda delle notti.

Incubi dai corpi slanciati, che parevano scolpiti nel marmo, volteggiavano leggieri, quasi in una danza, tra i vassoi di frutta esotica e gli avventori, già storditi dai profumi del luogo e dalla bellezza disarmante che li circondava.

La particolarità del bordello era proprio quella di avere Succubi e Incubi alle sue dipendenze. Un'idea estremamente geniale, che permetteva a queste creature della notte di sfamare la loro fame libidinosa di incubi, e al proprietario di saziare quella di denaro. Era un bordello molto rinomato, data la proverbiale bellezza delle donne e dei giovani che vi si potevano trovare tra cui Valentine, che era uno dei più richiesti.

Quella notte, però, deluse molti dei clienti che avevano atteso trepidanti il suo arrivo, poiché salì subito le scale che portavano al piano superiore e si avviò lungo il corridoio. Lì si aprivano le camere da letto da cui proveniva una cacofonia di urla soffocate, gemiti, sospiri, scoppi di risa e segreti sussurrati tra le lenzuola che faceva tremare le pareti, riccamente decorate con arazzi rappresentanti scene d'amore e di possesso tra Umani e creature mostruose: donne dal corpo d'uccello che avvolgevano con le loro ali possenti ignari profondamente addormentati, o creature con il volto di un giovane e il corpo di serpente che si contorcevano attorno a bellissime fanciulle, sensualmente abbandonate tra lenzuola di seta. Valentine aveva sempre trovato quelle rappresentazioni un po' grottesche: gli Incubi non si presentavano mai in un aspetto così mostruoso di fronte alle loro vittime, sarebbe stato controproducente; assumevano quei tratti che sapevano essere il desiderio più recondito dei loro clienti, tramutando in realtà le loro fantasie più remote e perverse. Il fascino misterioso di Valentine aveva conquistato la maggior parte degli avventori di Incubi sereni, e nemmeno il suo gestore era rimasto indifferente ad esso.

In fondo al corridoio si stagliava una porta in noce, finemente intagliata, l'Incubo le diede un lieve colpo. Una voce dall'interno, profonda e suadente, lo invitò ad entrare.

Una lampada ad olio gettava una luce fioca e malata attorno a sé, lasciando la stanza in penombra e disegnando ombre di volute inquietanti sul giovane seduto alla scrivania, distorcendone i bei tratti del volto.

«Anche stasera rimanete qui fino a tardi» lo salutò Valentine.

«Mai come te» rispose il giovane inarcando le labbra in un sorriso malizioso «Perché non sei a far urlare di piacere qualche dama dal nome improbabile?» continuò, sollevando lo sguardo dal registro che stava analizzando. Valentine venne catturato dal suo sguardo di ghiaccio e sentì un improvviso peso gravare tra la gola e la bocca dello stomaco. Dovette deglutire più volte prima di riuscire a parlare.

«Avevo bisogno di domandarvi una cosa.»

Il giovane tolse le lunghe gambe dal tavolo, chiuse il registro e si mise più comodo sulla poltrona, senza mai staccare lo sguardo dall'Incubo. Valentine iniziò a tremare, mentre il peso si faceva più greve a mano a mano che l'intensità di quello sguardo freddo aumentava.

«Ti ascolto» lo invitò il giovane.

L'Incubo fece un respiro profondo, odiava il rapporto di dipendenza e subalternità in cui lo gettava ogni volta quello sguardo.

«Si tratta di...Aren» riuscì a dire in un soffio.

«È da lui che sei andato, stasera»

Non era una domanda, ma Valentine si ritrovò ugualmente ad annuire.

Il giovane si alzò dalla scrivania e si appoggiò davanti ad essa, oscurando, in parte, la luce della lampada con il suo corpo longilineo.

«Sai che non avresti dovuto incontrarlo. È stato cacciato dal Circolo, è un reietto, un escluso» lo rimproverò con voce pacata e gentile. Valentine, però, si trovò costretto ad abbassare il viso, come se si vergognasse, non riuscendo a resistere alla forza opprimente di quello sguardo.

«Mi ha chiesto aiuto per essere riammesso» confessò tutto d'un fiato.

Il giovane scoppiò in una risata cristallina che fece sussultare l'Incubo di sorpresa.

Improvvisamente il peso che opprimeva Valentine svanì, lasciando il posto ad un sospiro di sollievo. Detestava profondamente il controllo che poteva esercitare su di lui, la malia che lo legava e lo sottometteva al Conte, quel potere che poteva renderlo capace di fargli fare qualunque cosa. Era questa la sua abilità e la sua forza: poteva controllare gli Incubi e le Succubi semplicemente con uno sguardo. Questo faceva di lui il loro comandante, il loro signore, il loro Conte.

«E perché sarebbe venuto a chiederlo a te?» domandò il giovane accendendo una sigaretta.

Valentine si ritrovò a sorridere, ora che non era più sotto l'incantesimo del Conte, aveva riacquistato tutta la sua sfacciataggine.

«Per l'ascendente che ho su di voi, presumo» rispose.

Il conte rise di nuovo, una risata più contenuta questa volta.

«E chi ti dice che tu abbia ascendente su di me?» chiese, tirando una boccata alla sigaretta. Valentine sapeva che lo stava provocando, era risaputo che lui fosse il suo favorito e che spesso e volentieri richiedesse i suoi favori. L'Incubo bruciò la distanza tra loro e si trovò a pochi passi dalle volute di fumo sprigionate dalle labbra del giovane. Questi se le leccò, provocante.

«Inoltre perché mai dovrei riammetterlo? Dammi un buon motivo e potrei pensarci» gli sussurrò, avvicinando il volto al suo.

«Perché sono io a chiedervelo» sussurrò l'Incubo, ad un soffio dalle labbra dell'altro «Non vi basta?»

Il Conte sorrise e rimise la sigaretta tra le labbra indifferente. Voleva qualcosa di più, le paroline dolci e lo sguardo languido non sarebbero bastati a convincerlo. Non erano mai abbastanza.
Valentine si avvicinò ancora di più al Conte e sfiorò il suo collo candido con le labbra sanguigne, accarezzando con il suo caldo respiro i punti che sapeva essere più sensibili. Il Conte rigettò la testa all'indietro e le volute di fumo si dispersero tra le travi di legno assieme ad un grido soffocato di sorpresa e piacere. Valentine aveva arditamente iniziato a sfiorare il sesso dell'altro.
Il Conte emise un altro grido soffocato e allontanò bruscamente l'Incubo da sé. Valentie rimase spiazzato.

Il giovane intanto stava gettando i rimasugli della sigaretta nel posacenere in onice.
«Ho fame» disse semplicemente.

Entrambi già sapevano cosa significasse.

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