Capitolo Uno.

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È per te questo bacio nel vento, te lo manderò lì con almeno altri cento

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È per te
questo bacio nel vento,
te lo manderò lì
con almeno altri cento.
(Sta passando novembre, Eros Ramazzotti)

Era il 14 aprile ed era trascorso un anno, un anno senza Davide. Quella mattina mi alzai presto, mi chiusi in bagno e piansi sotto la doccia, rannicchiata in un angolo. Il dolore non era mutato, né diminuito, anzi lo sentivo ancora di più. Il tempo avrebbe dovuto aiutarmi, ma non era successo. Non c'era rassegnazione nelle mie lacrime, né tantomeno la voglia di reagire. Negli ultimi giorni avevo finto, ero diventata una brava attrice, mi nascondevo dagli occhi amorevoli e preoccupati di mia madre, donandole sorrisi che sebbene fossero sinceri perché a lei rivolti, celavano bene ciò che invece sentivo dentro. La mia bocca ormai si piegava automaticamente non appena lei mi guardava. "Sto bene mamma", le dicevo spesso, ma molto probabilmente non era stata ingannata dalla mia finta gioia. "Le mamme sentono tutto, lo sai bambina mia? Se il tuo cuore piange, io me ne rendo conto e piango insieme a te, in silenzio, mentre tu dormi sonni non tranquilli." Impossibile mentire a mia madre, lo sapevo, ma mi illudevo di farcela. Era dotata di una sensibilità fuori dal comune, bastava una mia parola detta flebilmente o un mio sguardo perso nel vuoto, per farla allarmare, ma stavo imparando a depistarla, a nascondermi bene, a sotterrare dentro di me quella mancanza, quella perdita che mi aveva devastato. Uscii dalla doccia e mi asciugai, erano ancora le sei del mattino e dovevo essere in ufficio alle nove. Trovai mia madre in cucina, intenta a preparare la colazione.
«Che ci fai in piedi a quest'ora?».
«Preparo la colazione a mia figlia. Devo nutrirla se non voglio vederla scomparire».
«Io mangio mamma» brontolai sedendomi al tavolo.
«Sì, come un uccellino» mi rispose, ammonendomi dolcemente.
Mi servì un cappuccino con tanta schiuma, ricoperto di cioccolato in polvere, come piaceva a me e una delle sue brioches, quelle che preparava quando ero piccola e che era solita congelare per averle sempre a portata di mano.
«Mi sembra di tornare indietro nel tempo» dissi mordendo il fragrante cornetto.
Il cioccolato caldo si sciolse sulla mia lingua, mentre uno smagliante sorriso aleggiò nelle labbra sottili di mia madre.
«Ti piace piccola mia?».
«È una bontà» esclamai pulendomi le labbra.
«Hai dello zucchero a velo sul naso» mormorò mia madre scoppiando a ridere.
Sorrisi a mia volta e passai il tovagliolo sul mio volto.
«Vieni qui, sei ancora sporca».
Si avvicinò e mi ripulì per bene come solo una mamma sa fare. Prese il mio viso tra le mani e mi guardò negli occhi.
«Lo so che giorno è oggi, so che è dura, ma puoi farcela, ci sono io con te».
Non aggiunse altro e mi abbracciò. Restammo così, strette l'un l'altra a farci forza e fortunatamente non piansi, non perché non ne sentissi il bisogno, ma non volevo farlo, non volevo più versare altre lacrime davanti alla donna che stava facendo di tutto per farmi rialzare dal mio abisso senza fine.
Uscii di casa ma non andai al lavoro, telefonai in ufficio e mi finsi malata. Passai dal fioraio, comprai un mazzo di ranuncoli e peonie e mi recai al cimitero. Mi fermai prima sulla tomba di mio padre, ma restai poco, il tempo necessario per cambiare l'acqua nei vasi e per dire una piccola preghiera. Era un'altra tomba a richiamarmi, quella di Davide. Volevo stare con lui, guardare la sua foto, parlargli in silenzio, sperando di ricevere una muta risposta, un segnale, qualunque cosa che mi confermasse che lui era lì, da qualche parte, che mi sentiva, che mi proteggeva, che mi guidava. Mi avvicinai alla sua tomba, posai le mie labbra sulla sua fotografia.
«Ciao amore mio» bisbigliai appena. «Non hai idea di quanto mi manchi».
Una lacrima solitaria rigò la mia guancia, l'asciugai con frenesia, rimproverandomi mentalmente. Sforzati di sorridere Silvia, se lui ti vede lo rattristerai. Stavo parlando con me stessa, ma la battaglia interiore era dura da affrontare. A volte pensavo di essere pazza. Il mio bisogno di sentire Davide accanto a me, mi faceva credere a cose che razionalmente erano impensabili. Lui era morto, non c'era più, eppure io continuavo a rivolgermi a lui come se ci fosse, continuavo a comportarmi come se lui mi vedesse davvero. Sorrisi e lo guardai.
«Stamattina sei bello come non mai, hai un sorriso che illumina il mondo».
Posai le dita sulla sua immagine, toccando le sue labbra su cui spiccavano i denti bianchi e splendenti. La sua famiglia aveva scelto una bellissima fotografia, non potevo obiettare. Davide era bellissimo, i capelli biondi mossi dal vento, gli occhi azzurri sorridenti, sembrava felice in quel fermo immagine che gli rendeva giustizia. Era così che dovevamo ricordarlo, solare e gioioso.
Sistemai i fiori nei vasi e poi mi sedetti  per terra a gambe incrociate. Un anno, era passato un anno, ma io l'amavo ancora, forse più di prima. Non riuscii a trattenere le lacrime e piansi sulla sua tomba. Il mondo era ingiusto, mi aveva portato via prima mio padre e poi l'amore della mia vita. Che cosa avevo fatto di male? Mi rammaricai più del solito e cominciai l'iter di autocommiserazione che mi rendeva fragile e arrabbiata al tempo stesso. Restai lì per ore, a piangere e a invocare l'aiuto di non so chi.
«Dammi la forza, ti prego, dammi la forza di andare avanti» dissi a bassa voce, alzandomi e continuando a guardare la foto di Davide.
«Non pianga. È un peccato  permettere alle lacrime di deturpare il suo bellissimo volto».
Udii  alla mia destra, una voce maschile profonda e roca, con una strana cadenza spagnola. Mi voltai leggermente  e vidi una  mano che giaceva, sospesa a mezz'aria, cingendo un fazzoletto bianco di cotone.
«Lo prenda» mormorò porgendomelo. «I suoi occhi non sono adatti al pianto. Lo sa? Hanno un taglio particolare: sono occhi nati per sorridere» continuò, mentre la sua voce scivolava su di me come una carezza.
Non lo avevo ancora guardato, ma sentivo il suo sguardo appoggiato sul mio viso. La mia attenzione era focalizzata sulla sua mano, una mano grande e ambrata, forte ma delicata al tempo stesso.
«Su, si asciughi» mi esortò.
Abbassò il capo, entrando nel mio campo visivo. Due occhi scuri e intensi mi trafissero. Sbattei le palpebre e respirai profondamente. Fu allora che le mie narici si dilatarono, colpite da un profumo mascolino, dalle note di  biancospino e caprifoglio. Mi sentii invasa da quell'odore, quasi come se la mia pelle si fosse impregnata di quella fragranza inebriante. Chiusi gli occhi ma li riaprii immediatamente, non appena percepii sul mio viso una stoffa morbida che assorbiva le mie lacrime, cancellandole. Afferrai la sua mano, per scostarla da me, per interrompere quell'intimo gesto che mi aveva scosso, ma il calore che emanava bruciò sul mio palmo freddo.
«Non  abbia paura, la prego. Volevo solo eliminare le tracce visibili del suo dolore. Per le lacrime del cuore non esistono fazzoletti» mormorò abbassando lievemente il tono della sua voce. «Sono stato inopportuno, mi scusi. È solo che penso che nessuno meriti il suo pianto, tantomeno lui» aggiunse, rivolgendo il suo sguardo penetrante alla fotografia di Davide.
Notai nelle sue parole un astio che non riuscivo a comprendere.
«Come si permette?». Dissi, destandomi da quello stato di trance in cui ero caduta.
«Non fraintenda, ma io sono uno di quelli che non adora i piagnistei. Se uno muore, muore. È un'assurdità, per non dire un inutile spreco di tempo, arrovellarsi il cervello con i sé e con i ma, torturare il proprio cuore con sofferenze che non giovano. Nasci, vivi e muori. C'est la vie, direbbero i francesi».
«Lei è un cinico senz'anima» mormorai con disapprovazione.
«No, non sono cinico. Sono realista. Lei pensa che le sue lacrime servano a qualcosa? Lui non tornerà e lei avrà passato la sua vita a piangersi addosso. È trascorso un anno. Dovrebbe smetterla di guardare al passato, dovrebbe passare oltre».
«Lei non sa nulla di me e non ha il diritto di dire queste cose. È la mia vita, non la sua. E la mia vita è finita quando è morto Davide, ma non pretendo di certo che uno come lei comprenda tutto questo. E in ogni caso, non sono affari che la riguardano».
Mi ritrovai a gridare, alzai la voce più del dovuto e dedicai a quell'uomo sconosciuto uno sguardo carico di odio.
«Silvia io so abbastanza, mi creda. Non volevo né ferirla, né irritarla. Sono diretto e dico quello che penso, ma su una cosa ha ragione, avrei dovuto tacere, ma non ho resistito. Sono qui da un po' e la stavo osservando. Attendevo che lei andasse via per posare questo fiore sulla tomba del mio amico ma lei è rimasta qui, a piangere per ore e alla fine ho deciso di porre fine al suo supplizio».
Si giustificò e si rivolse a me con gentilezza, quasi come se volesse ammansirmi.
«Come fa a sapere il mio nome? Io non la conosco» borbottai infastidita.
«Non ci conosciamo, ma ci siamo già visti un anno fa, al funerale di Davide ma lei allora vedeva solo il suo dolore. Non mi ha notato, io sì».
«Non mi ricordo di lei e se davvero fosse stato un amico di Davide, immagino che ci saremmo già conosciuti».
«All'epoca non vivevo più in Italia, sono venuto per il suo funerale».
«Posso sapere il suo nome?».
«Mi chiamo Noah Zanca».
Mi porse la mano e attese che io mi decidessi a stringerla.
«Piacere» mormorai avvampando e ritraendomi immediatamente.
«Davide non mi ha mai parlato di lei» aggiunsi guardandolo negli occhi.
«Dammi del tu Silvia, chiamami Noah».
«Noah perché non so nulla di te?».
Continuai il mio interrogatorio. Non mi fidavo di quell'uomo arrogante e sicuro di sé e soprattutto non mi capacitavo del fatto che Davide non mi avesse mai parlato di quell'amico.
«È una storia lunga Silvia, una storia che preferirei raccontarti davanti a un caffè».
«Io non ti conosco» dissi con l'intento di rifiutare quell'inaspettato invito.
«Mi conoscerai» mormorò trafiggendomi con lo sguardo.
«E se io non volessi conoscerti?».
Sorrise, compiaciuto di se stesso.
«Troppo tardi, ci siamo già stretti la mano».
«Noah non posso» mi ritrovai a dire, mentre distrattamente accarezzavo le peonie.
«Guarda».
Mi voltai di nuovo verso di lui. Aveva tra le mani una fotografia. Erano lui e Davide, sorridenti su una barca.
«Ti fidi adesso?». Mi chiese.
Annuii con poca convinzione, poteva essere un amico di Davide ma per me era comunque un estraneo, ma la voglia di carpire informazioni era più forte di me. Nessuno mi parlava mai di lui, la sua famiglia viveva lontano e io non avevo nessuno che potesse raccontarmi degli aneddoti che lo riguardavano. Conoscere qualcosa di lui che non sapevo, era come farlo rivivere e io volevo che lui vivesse in me in eterno.
«Andiamo» borbottò.
Mise il garofano nel vaso e attese che io salutassi Davide. Come di consuetudine baciai la fotografia che lo ritraeva.
«Ciao amore» dissi in un sussurro. «Ti amo. Torno presto».
Sperai vivamente che Noah non avesse udito nulla. Si era già allontanato, ma continuava a guardarmi. Il suo sguardo su di me mi imbarazzava. Mi sentivo sotto esame, come se fossi un soggetto da studiare.
«Perché mi guardi così?». Gli domandai, raggiungendolo.
«Non ti stavo guardando, ti stavo osservando».
Corrugai la fronte e mi sentii nuovamente a disagio.
«C'è un'enorme differenza tra guardare e osservare. Guardare significa appoggiare gli occhi su qualcosa, distrattamente, osservare invece significa vedere, andare oltre l'immagine che ti si palesa davanti. Io non guardo Silvia, io osservo».
Ascoltai la sua spiegazione senza battere ciglio. Lui mi osservava, ma chissà cosa vedeva. Fui tentata di chiederglielo, ma mi morsi la lingua prima di parlare, non era importante saperlo, eppure avvertivo il desiderio di conoscere il suo pensiero.
«Che cosa hai visto?». Mi ritrovai a dire, senza rendermene conto.
«Prima ti ho visto, poi ti ho osservato». Puntualizzò tanto per ribadire il concetto. «Sono entrato al cimitero, stringevo il garofano tra le mani e poi i miei occhi si sono appoggiati su di te con noncuranza. Mi sono fermato e ti ho osservato. Ti ho riconosciuto. Hai catturato la mia attenzione e un rapido sguardo non sarebbe bastato per capire, per comprendere cosa ti porti dentro. Ecco perché ho seguito i tuoi gesti e quando il dolore che emanavi è divenuto insopportabile per me, mi sono avvicinato, per distrarti».
«Non ho bisogno di distrazioni» dissi scocciata. «Se qualcuno ti avesse visto, appostato lì  a guardare me, avrebbe potuto pensare che fossi un malintenzionato».
«E chi dice che non lo sono?».
Smisi di camminare e mi fermai. Sentii il cuore in gola per l'agitazione e pensai di scappare. Lui scoppiò a ridere.
«Secondo te ho la faccia di un serial killer?». Mi domandò continuando a ridere. «E va bene, lo ammetto, sono un molestatore di giovani donne che vanno al cimitero. Sono le mie vittime preferite».
Mi ritrovai a ridere con lui, se non altro per la buffa espressione che aveva assunto. Ero diffidente di natura eppure c'era qualcosa che mi spingeva ad approfondire la sua conoscenza, e quel qualcosa, era il legame di Davide con Noah o almeno io mi convinsi che la ragione della mia fiducia era quella.
«Andiamo» mi ripeté.
Lo seguii senza più nessuna traccia di esitazione, con incoscienza e con una strana sensazione di serenità che non avvertivo da tantissimo tempo.

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