Capitolo Tre - Prima Parte

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Non è per questo che sei venutaNon avresti voluto venire, oh piccola, per che cosa vuoi giocare?Dai, lasciami baciare quel

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Non è per questo che sei venuta
Non avresti voluto venire,
oh piccola, per che cosa vuoi giocare?
Dai, lasciami baciare quel...
Oh, so che ti manca
che c'è di male,
lasciami sistemare quella curva che Baby...
Questa notte è la notte in cui ti dirò
Baby, questa notte è la notte in cui perderemo il controllo
Baby, questa notte ne hai bisogno, questa notte credici.
Questa notte sarò la cosa migliore che ti sia mai capitata.
Non voglio vantarmi ma sarò
la cosa migliore che ti sia mai capitata.
(Tonight, John Legend)

Amavo e odiavo la notte. L'amavo perché nel buio della mia stanza potevo abbandonarmi ai miei pensieri senza che nessuno mi disturbasse, ma al tempo stesso la detestavo perché era di notte che mi sentivo veramente sola. Quella notte però era peggiore delle altre, era più cupa, era diversa. Mi rigiravo nel letto tentando invano di prendere sonno. Gli occhi spalancati brancolavano nel buio della stanza. Era ormai tardissimo ma non c'era verso di dormire. Stranamente il flusso dei miei pensieri migrava verso qualcosa di diverso e sconosciuto. Una voce diversa, un volto diverso. Non più due occhi chiari, ma due perle scure e profonde che mi avevano ipnotizzato e un nuovo nome: Noah. Usciti dal cimitero, eravamo stati in un bar e il tempo era volato. Per la prima volta, ogni secondo che passava non mi era sembrato interminabile, ma troppo veloce e repentino. E le sue parole, le sentivo ma erano un suono più vivo, più veritiero rispetto all'ormai sopito tono di voce di Davide che risuonava in me come un eco lontano. Più non volevo pensarci, più ci pensavo. Ogni frase che aveva detto riecheggiava nella mia testa, facendomi sentire inquieta, agitata, sedotta. Sì sedotta e morbosamente attratta, nonostante fosse un perfetto sconosciuto e nonostante avesse descritto Davide con termini che non condividevo affatto.
Il modo in cui ci eravamo lasciati, il suo sussurro al mio orecchio, il modo in cui mi aveva guardato... Se chiudevo gli occhi vedevo la sua bocca schiudersi e inumidirsi e quel pensiero era così atroce per me da farmi sentire addirittura sporca, sporca perché la immaginavo su di me, immaginavo sulla mia pelle una bocca che non conoscevo, una bocca di cui ignoravo il sapore, una bocca che stavo bramando, una bocca che non era quella di Davide. Ad un certo punto poi, durante quello strano incontro, aveva sfiorato la mia mano con le sue dita, accidentalmente credo, ed io ero saltata sulla sedia. Quel suo tocco, così inaspettato, aveva scosso il mio corpo, ormai non più abituato a nessuna carezza sentita, se non a quella di mia madre, che con pazienza e amore tentava invano di alleggerire il mio dolore. Avrei voluto avere anche solo un briciolo della sua forza, ma non ce l'avevo, non l'avevo mai avuta e nemmeno mi ero sforzata di trovarla, non mi interessava più. Ma quel tocco non aveva nulla a che fare con l'amore di una madre, quel tocco era altro, quel tocco era elettricità che ridestava un corpo morto, quel tocco era un alito di vita dove di vita non vi era più traccia, quel tocco era stata la fiammella che aveva riportato in me una fioca luce, mettendo in ombra però il ricordo di Davide, di quel suo amore così intenso da non poterlo dimenticare, quel ricordo che io stessa stavo mettendo in pericolo. Qualcosa o qualcuno si era insinuato nei meandri della mia mente e non riuscivo a liberarmene. Poteva una voce scuotermi in quel modo? Sì, poteva e lo aveva fatto. Quella che passai fu una notte insonne, non dormii per nulla e i rari momenti di finto riposo, si conclusero tutti allo stesso modo, con la visione di lui che mi toccava, accendendo in me il desiderio. L'indomani mi trascinai al lavoro, mi costrinsi a dimenticare quella nottata senza significato alcuno e mi gettai a capofitto nel lavoro. I numeri erano l'unica alternativa che conoscevo ai miei pensieri insensati e così, per quelle poche ore, riuscii a scacciare Noah dalla mia testa. Andai anche al cimitero come di consueto, ma nel momento in cui mi ritrovai dinnanzi alla tomba di Davide, uno strano senso di colpa mi pervase. Non dissi nulla, nessun pensiero ad alta voce, restai muta e dopo poco, me ne andai, lasciando solo un bacio su quella fotografia. Terminata la mia giornata lavorativa, Noah tornò ad occupare la mia mente e senza rendermene conto, camminando per la via di casa, mi ritrovai davanti a casa sua. Via Nosadella 63, sussurrai leggendo la tabella affissa al muro. Guardai casa sua, era una palazzina, un condominio elegante e di recente costruzione. Mi avvicinai al portone, lessi il suo nome, sfiorai quella scritta, nero su bianco, posai il dito sul campanello. Il mio cuore cominciò a battere furiosamente nel petto, la mia pelle si imperlò di sudore e mi mancò il respiro. Che cosa stavo facendo? Spostai di scatto la mano, dovevo andarmene e di corsa. Avevo perso ogni ragione, ero arrivata persino a spingermi fin sotto casa sua. Per fare cosa poi? Che cosa? Tremavo, avevo paura, mi sentivo colpevole. Feci per andarmene, mossi alcuni passi, ma la mia corsa terminò sul petto di Noah.
«Silvia...» mormorò con voce incredula.
Alzai gli occhi, portandoli sul suo volto, il suo profumo mi avvolse e la facoltà di parola mi abbandonò.
«Entriamo in casa» disse e io lo seguii.
«Sapevo che saresti venuta» dichiarò compiaciuto.
Mi aiutò a sfilare la giacca a vento che indossavo, poi mi prese per mano, guidandomi fino al centro del salone. Non guardavo nulla, se non lui. Non avevo visto niente, nessun mobile, nessun quadro, il mio sguardo era paralizzato, fermo, inesorabilmente rapito da lui, dal suo corpo che si muoveva e dalla sua voce che mi incantava.
«Perché sei qui?». Mi domandò. «Devi dirmi perché sei qui. Devi cercare la risposta alla mia domanda, devi spiegare a te stessa la ragione che ti ha portato fino a me».
«Io non lo so...» dissi flebilmente. «Non lo so» ripetei.
Iniziai a piangere, il ricordo di Davide bussò alla porta del mio cuore, sentii il dolore che conoscevo bene, invadermi di nuovo e ancora, ma continuai a guardare Noah, senza vergogna, senza pudore.
«Chiudi gli occhi» sussurrò al mio orecchio.
Annuii e serrai le palpebre. Le lacrime stavano ancora inondando il mio volto e io sentivo solo il mio dolore. 
«Ricominciamo da qui» sussurrò al mio orecchio. «Ricominciamo dall'attimo in cui hai respirato di nuovo la vita» continuò, pronunciando le parole lentamente.
Noah stava riattivando i miei sensi, stava riportandomi nel luogo in cui, secondo lui, io avevo ripreso la percezione del mondo, quel contatto con la realtà che non sapevo di aver perso.
«Ascolta il battito del tuo cuore Silvia, concentrati solo su quello».
Obbedii al suo ordine senza nemmeno rendermene conto. Un attimo prima ero assorta dal peso che sentivo sul cuore e un attimo dopo invece, udivo solo il suo palpitare.
«Sentilo Silvia... batte. E tra poco batterà più forte» mormorò, accarezzandomi il viso.
La sua carezza e il suo inconfondibile profumo fecero accelerare il mio respiro e poi una morbida stoffa asciugò le mie lacrime. Di nuovo.
Riaprii gli occhi e vidi il fazzoletto bianco, lo stesso fazzoletto che aveva utilizzato durante il nostro primo incontro.
«La tua vita ricomincia da qui, da questo fazzoletto,  da me che ho cancellato le tue lacrime».
I suoi occhi erano due pozze scure puntate su di me. Era determinato, ipnotico, carismatico.
«Cosa vedi?». Mi domandò, sedendosi difronte a me e porgendomi il fazzoletto.
«Guardalo bene. Afferralo, stringilo tra le tue dita. Non lasciarlo andare Silvia. Usalo, consumalo, tienilo stretto, blandisci ogni millimetro di quella stoffa. Sfruttalo, fagli assolvere il suo compito, ma non gettarlo via, non prima di aver preso da lui tutto quello che può offrirti».
Osservai il cotone candido, toccai l'orlo, ne tastai la morbidezza e mi soffermai sui punti umidi che avevano raccolto le mie lacrime.
«Quello è il tuo dolore. È lì adesso... su quel fazzoletto. E io voglio raccoglierlo».
Continuai a guardarlo, ad assorbire le sue parole, a farle mie. Sembravano un mantra, una sorta di litania che mi penetrava nel corpo.
«Mi stai ascoltando Silvia?». Mi domandò, mentre  i miei occhi ammiravano la sua bocca  incantatrice.
La sua domanda riportò la mia attenzione sul nocciolo della questione, sul discorso così ammaliante che stava portando avanti, ma di cui io non riuscivo ad afferrarne il senso.
«Mi stai offrendo una spalla su cui piangere Noah? È consolazione quella che mi stai propinando? Io non ho bisogno di nulla. Posso farcela da sola».
«Hai bisogno di me... Tu hai dimenticato tutto Silvia, hai scordato cosa significa accendere l'anima, cosa vuol dire far vibrare i corpi. Tu non respiri ossigeno, tu respiri ricordi, ti nutri di essi e ti uccidi ogni giorno. Io posso farti rivivere. Sono quello che può riportarti al mondo e lo farò. Ti ridarò l'aria, ridarò vita al tuo corpo».
Avrei dovuto sentirmi indignata o quantomeno avrei dovuto reagire alla sua arrogante certezza di essere lui la persona di cui avevo bisogno, ma l'unica conseguenza delle sue parole furono altre lacrime, sempre le mie. Aveva ragione Noah, io vivevo di ricordi. La mia mente era invasa da immagini di me e Davide. Baci, carezze, sorrisi. Vedevo tutto ciò che mi aveva donato e ci pensavo ogni santissimo giorno, con insistenza, con ferrea convinzione di non staccarmi da lui, mai. Nemmeno la morte doveva separarci, non lo avrei permesso. Ecco perché mi aggrappavo a tutto ciò che mi rimaneva di lui. Ritagliavo nella mia giornata degli spazi solo nostri, dedicati esclusivamente a noi e a ciò che eravamo. Chiudevo gli occhi, respiravo profondamente e mi concentravo sull'immagine del suo bellissimo volto angelico. Lottavo con brama per percepire ancora il suo profumo, per sentire le sue mani sulla mia pelle, per ricordarmi quale sapore avesse la sua bocca carnosa sulla mia; duellavo contro me stessa, contro la voglia di averlo ancora con me, su di me, dentro di me, ma lui non c'era più. La disperazione mi colpì di nuovo, iniziai a singhiozzare e non tentai nemmeno di ricompormi. Noah mi guardava, impassibile. Pareva quasi che non vedesse le mie lacrime. Rimase distante, non provò nemmeno a sfiorarmi, ma il suo sguardo cupo mi tenne avvinta.
«Basta Silvia, basta» tuonò a un certo punto, rompendo il suo silenzio assoluto. Mi afferrò per un braccio e mi fece alzare, trascinandomi davanti allo specchio imperioso che troneggiava nell'atrio di casa sua.
«Guardati... guarda come sei diventata».
La mia immagine riflessa nella specchiera, metteva tristezza. Non avevo alcuna luce. I miei occhi blu erano dilatati e gonfi di lacrime, i miei capelli erano un vero e proprio disastro e la mia postura, goffa e incerta. La mano di Noah cingeva ancora il mio braccio in una morsa serrata e decisa. Sentivo sulla mia pelle, la pressione esercitata dalle sue dita. Non mi lasciava andare, mi stava costringendo ad andare oltre la mia figura, oltre il mio corpo, mi stava obbligando a guardarmi dentro. Era troppo per me, non volevo vedere. Sapevo ciò che ero, ma guardare in faccia la realtà era ben altro. Finora ero sfuggita a tutto, non avevo affrontato nulla perché non volevo affrontarlo. Ero felice così, con la mia vita fatta di ricordi, anche se felicità non era la parola giusta per definire il mio modo di sopravvivere.

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