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I passi pesanti lungo le scale, le suole degli stivali strofinate contro il vecchio e umido zerbino sulla porta dell'appartamento, la chiave nella toppa, due mandate in senso antiorario, due 'clac', il cigolio dei cardini, l'odore dei piatti sporchi rimasti nel lavello.

«Mamma, sono a casa!» pronuncio forte e chiaro entrando, e come risposta ricevo solo un rantolo, come tutte le sere.

È rannicchiata sul divanetto e sonnecchia, come sempre, con la TV accesa a volume impercettibile, i capelli raccolti in un elastico rosa ormai distrutto e addosso gli stessi vestiti da tre giorni. Il ritratto puro della depressione.

A volte mi fa pena, a volte rabbia. Forse dovrei fare qualcosa per lei.

«Hai mangiato?» le chiedo.

Bofonchia qualcosa a metà tra un sì e un no.

«Va bene. Vediamo cosa c'è per cena.»

La nostra casa è buia, perché lei non apre mai le tende, e quando lo faccio io, protesta come una matta perché le dà fastidio il sole.

Per prima cosa, mi metto a lavare i piatti. Non riuscirei a mangiare comunque, con questa puzza sotto il naso.

Apro il frigo e rimpiango seriamente l'invito di Warren. Due uova oscillano in un angolo da giorni, una zucchina annerita è sdraiata su foglie di lattuga ormai rugose, una bottiglia di salsa messicana fa compagnia a una scatoletta di tonno aperta.

«Pizza, offro io.» dico, pur sapendo che sto parlando praticamente da sola. «Come la vuoi?»

Un lamento incomprensibile.

«Ok, margherita.» decifro.

Entro in camera mia per chiamare la solita pizzeria e mettermi qualcosa di più comodo. Mi tolgo la maglietta, che nasconde il reggiseno griffato comprato con i soldi del lavoro segreto, i petali del mio tatuaggio, poi i pantaloncini. Mi guardo allo specchio e spalanco gli occhi: sulle mie natiche ci sono ancora i segni rossi lasciati dalle mani di Mister T. Li sfioro con le dita, e ricordare quei momenti basta a farmi eccitare. Sento qualcosa muoversi all'altezza delle costole, mi lascio cadere sul letto sfatto e infilo le dita nelle mie mutandine. Mi tocco lentamente pensando a lui, immaginando un volto perfetto e ricostruendo con la memoria il corpo che ho toccato. Spingo le dita dentro, le tiro fuori, muovo la punta dell'indice intorno al clitoride ricordando la sua lingua, i suoi denti, i suoi morsi, il suo profumo. Ogni dettaglio è chiaro nella mia fantasia, manca solo la sua voce. Dio, cosa darei per sentire la sua voce.

Un lamento di mia madre mi riporta alla realtà. Riapro gli occhi, mi metto seduta sul letto e indosso subito un vestito comodo e pulito. Ma che mi prende, cosa diavolo sto facendo?

«Cosa c'è, mamma?»

«Io ci voglio le patatine!» grida, per farsi sentire. «E i pezzetti di salsiccia.»

«Ho capito!» rispondo allo stesso modo, e mi sbrigo a prendere in mano il telefono e fare l'ordinazione.

Dopo aver riattaccato, apro il cassetto del mio comodino, prendo la scatola dove tengo nascosti i soldi e tiro fuori il necessario per pagare all'arrivo della cena. Aspetto sdraiata, guardando il soffitto vuoto, mentre sento mia madre camminare per la cucina e trascinarsi per terra come uno zombie.

Passano poco più di venti minuti quando il nostro campanello suona. Il fattorino, come ogni volta, mi guarda dalla testa ai piedi come se mi stesse immaginando nuda e ammicca, ma io mi limito a pagare e a tornare in casa. È disgustoso.

Poggio i cartoni sul nostro vecchio tavolo di plastica, li apro, mia madre tira indietro una sedia e si siede, afferra un trancio di pizza e gli dà un morso. Non alza neppure la testa, non mi guarda nemmeno. Certe volte mi chiedo se le importi davvero qualcosa di me.

«Con quali soldi hai pagato?» mi chiede a un certo punto, dopo aver mandato giù un boccone.

«Quelli del mio lavoro. Il negozio di computer.» mento.

«Ti pagano davvero per sistemare i computer della gente?»

«Certo.»

Ha sempre creduto alle mie bugie, è la prima volta che mi fa delle domande. Spero solo che non abbia alcun sospetto, non saprei come gestirla.

«Non sprecare i soldi in cibo e sciocchezze.» sbotta, afferrando un altro pezzo e alzandosi, per tornare a rintanarsi nel divano.

Non le rispondo, la guardo innocentemente, continuo a mangiare e fermo una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Di certo, lei non può neanche immaginare che solo un'ora in compagnia di quel misterioso sconosciuto mi è valsa abbastanza da offrirle la cena per giorni e giorni. Non sa che un uomo mi ha offerto cinquecento dollari per sculacciarmi e sbattermi bendata su un letto in una camera d'albergo. E non potrebbe pensare che prima di lui altri uomini mi hanno toccata, leccata e scopata per soldi.

«Mi ci pago l'università.» dico, più per giustificarmi con me stessa che con lei.


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Fragile - Anteprima romanzoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora