Capitolo 11: Una lezione e una verità rubata

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I giorni trascorsero, e così le notti.

Non sempre dormivo - a volte non ci riuscivo. Quando lo facevo, tutto ciò che ricordavo dei miei sogni il mattino dopo erano occhi verdi e foglie danzanti, notti stellate e l'odore di fragole e cioccolata. Quando invece passavo ore e ore insonne finivo con il correre nella foresta vicino alla baita, fino a che la stanchezza non mi pesava sulle spalle e tornare indietro non diventava un'impresa.

Un giorno tornai all'alba e Fidel mi vietò future uscite notturne, sostenendo non fosse sicuro. Io gli badai poco e continuai a farlo, anche perché sapevo di non essere sola, nel buio.

Yozzi correva con me e, dopo una settimana, mi abituai a sentire il suo pelo morbido prima tra le dita, poi contro il viso. Poco a poco stava diventando una presenza rassicurante e necessaria per ritrovare la calma in quel posto, e ogni volta che sentivo la mancanza di casa o la scatola che ormai riaprivo solo di notte rischiava di spalancarsi, lui appariva accanto a me, leccandomi le dita con entusiasmo o strattonando l'orlo dei vecchi pantaloni marroni che Fidel mi aveva procurato. Non sapevo come facesse a intuire i miei stati d'animo e non mi interessava scoprirlo. Preferivo rimanere ignorante, almeno in quello.

I primi giorni con lui, Fidel mi insegnò a rimanere in sella per più di pochi minuti. Fortunatamente dovetti stare simpatica ai cavalli, perché non cercarono di farmi fuori... non tutti, perlomeno. Alcuni, però, non sembrarono amare particolarmente la mia presenza - come il preferito di Fidel, uno stallone dal manto dorato e gli occhi estremamente intelligenti, costantemente irritati. Quello e gli animali che lo circondavano parevano non apprezzare granché la mia persona e non sembravano intenzionati a cambiare idea, presi com'erano dalle carote che il loro padrone non mancava mai di portargli.

Ma quello stallone... lui più di ogni altro. Tutte le volte che intercettava il mio sguardo iniziava a sbuffare e nitrire, così forte che l'unica cosa che sembrava calmarlo era il momento in cui gli altri cavalli più quieti incominciavano a dargli retta e decidevano di farmi cadere di sella con un paio di salti imbizzarriti.

Io, poi, avevo tutt'altro che una presa salda, quindi crollavo in fretta.

Fidel iniziò a insegnarmi anche le basi di quello strano mondo. Mi raccontò di come le Terre del Tempo fossero divise ormai da secoli in due regni: Lyede, quello in cui mi trovavo e che prendeva il nome dalla sua capitale, e Chev, a occidente rispetto a noi. I due erano separati da una lunga catena di monti, i Ver'Neri, che si estendeva lungo tutto il confine e a Sud incontrava l'Isola di Nest e il mar Baryon, che a sua volta si allungava fino alle terre dell'estremo Sud. A Nord si trovavano le Nevi, e Oltre le Nevi iniziava il Regno di Bellaria. A est, invece, le terre di Orwey.

Non avevo molta voglia di imparare una geografia che in futuro, con un po' di fortuna, non mi sarebbe mai più servita. Per quello non mi applicai molto nell'apprendimento, ma quei nomi curiosi e la stranezza del tutto mi rimasero impressi così tanto che in pochi giorni iniziai a immaginare di visitare quelle terre, vedere i tramonti argentei dell'Isola di Nest e sprofondare i piedi nelle acque calde dei monti Bryoni, gli stessi che si intravedevano rosei dalla baita.

Tutto ciò, inutile a dirsi, strideva apertamente con il folle desiderio di tornare a casa.

Mi stavo abituando a evitare di pensare a Dublino e chi avevo lasciato indietro, evitare di farmi coinvolgere troppo da sentimenti malinconici. Eppure ogni tanto sentivo così forte il desiderio di andarmene e la paura per quella situazione, che semplicemente mi chiudevo in me. Quando accadeva e non potevo correre tra i boschi a sfogare la frustrazione, mi rintanavo accanto al recinto del gregge, fissando le montagne in lontananza e cercando di calmare qualsiasi tormenta stesse prendendo piede dentro di me, immaginando di essere in vacanza, più che in un mondo totalmente nuovo e sconosciuto.

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