Capitolo 12 (pt.2): Sulle sue tracce

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Il Principe

Il principe era stanco.

Le spalle basse sotto il peso dei giorni trascorsi a cavallo, le mani serrate intorno alle redini e gli occhi verdi sotto il cappuccio nero, infossati ma vigili - consapevoli del bisogno di metter fine a quella missione letteralmente improvvisata.

Aveva cavalcato giorno e notte per arrivare fin lì, fermandosi solo il tempo necessario per far riposare lo stallone e rifocillarsi. James lo aveva seguito sempre a poca distanza, restando alto nel cielo per riferire ogni minimo pericolo, ogni cambiamento nell'aria che avrebbe potuto far da preavviso o avvertimento.

Uno dei primi pomeriggi in quel regno, i due amici avevano incontrato una ragazza di paese che, balbettando per l'imbarazzo, aveva raccontato loro di una diceria curiosa e divertente; probabilmente invenzione di qualche briccone, aveva riso, ma davvero, davvero strana.

Si diceva ci fosse un dyaren nelle terre di Lyede, giunto dopo anni di silenzio dal popolo di Dya con una foglia al seguito e una tigre furiosa che gli dava la caccia. Quest'ultima si raccontava fosse una tigre bianca, che andava terrorizzando villaggi e paesanotti, viaggiando a tarda notte tra le strade meno frequentate del regno.

Se la giovane campagnola lo avesse raccontato a chiunque altro, sarebbe probabilmente riuscita a strappare qualche risata, alimentando forse le chiacchiere nelle poche taverne del posto. Il principe, però, raramente prendeva certe storie sottogamba: sapeva bene, anzi, come in ogni diceria ci fosse sempre un pizzico di verità. Per quel motivo aveva preso e spronato il proprio stallone con vigore, implorandolo di raggiungere in fretta l'ingresso per le Terre di Dya.

In fretta. Ancora più in fretta.

Perché se il dyaren fosse stato già lì, nelle Terre del Tempo, quel che il ragazzo aveva sacrificato per adempiere al compito assegnatogli dal re sarebbe potuto rivelarsi vano. Il dyaren sarebbe potuto essere a conoscenza della verità, avrebbe potuto vederlo, magari in sogno, avrebbe potuto sentirlo...

Non poteva permetterlo. Doveva essere lui, il primo a trovarlo; lo avrebbe fatto e gli avrebbe tolto la vita, mettendolo definitivamente a tacere e proseguendo a completare il proprio incarico senza altre intromissioni.

Dunque aveva corso, corso e ancora corso. Era giunto a destinazione, all'ingresso di Dya, e lì non aveva trovato nessuno a parte l'infinita scalinata che conduceva al Portale.

Ora le stava studiando, quelle scale, scrutandole con attenzione: antiche, imponenti e a chiocciola, si estendevano verso il basso in tutta la loro maestosità, per cinque piani invasi da una selvaggia vegetazione. L'edera cresceva dalle crepe nella roccia e il muschio ricopriva l'intera costruzione, segno dell'abbandono di quel luogo un tempo considerato sacro, ormai dimenticato nella sua infinita tristezza.

Da tanti, troppi secoli.

Adesso era un cumulo di rovine senza gloria, senza passato, che manteneva appena il necessario alone di mistero e magia che un luogo simile avrebbe dovuto avere per allontanare gli sguardi dei curiosi. Nessuno, infatti, gli si avvicinava, e nessuno cercava rifugio in quelle mura dimenticate. Non c'era essere umano che volesse rispolverare i segreti lì celati, o che volesse venire a contatto con qualcosa di tanto mistico e curioso. L'Ingresso di Dya, un tempo nascosto all'interno di un'immensa caverna a Nord del Regno di Lyede, era noto a buona parte della nobiltà delle Terre del Tempo - eppure nessuno voleva avvicinarcisi, neppure i paesani più spavaldi che incappavano nelle rovine per puro caso.

Il popolo di Lyede aveva una strana reticenza quando si trattava di avvertire sulla pelle i resti della magia. Non per nulla, a Chev si diceva fosse quello il motivo per cui non amavano avvicinarsi a luoghi come l'Ingresso, o gli stessi Cancelli di Ossidiana che l'avevano condotto in quei luoghi. "Leva la magia a un popolo e si trasformerà inevitabilmente in una massa di rozzi paesanotti," aveva sempre sostenuto James, ma il principe non era mai stato convinto di quelle parole; pensava piuttosto il popolo del regno maledetto evitasse di proposito i ricordi del proprio glorioso passato, per non dover tornare a desiderare inutilmente ciò che non avrebbero più potuto avere.

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