Capitolo Uno

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Non avevo molti ricordi del mio passato.
I volti dei miei veri genitori erano maschere sbiadite nella mia mente.
Avevo solo qualche rimasuglio della mia infanzia, nomi senza volto e il buio più totale.
A nove anni era successo qualcosa nella mia famiglia.
Il trauma era stato grande a tal punto da farmi dimenticare la maggior parte della mia vita.
Avevo solo un brandello di ricordo che riguardava il mio migliore amico.
L'unico che avevo avuto in tutta la mia vita.
Era un'immagine ferma nella mia mente, accompagnata da un sottofondo di risate e dalla melodia di un carillon.
Yra i buchi neri della mia amnesia, intravedevo i suoi occhi color miele e i capelli di un mogano scuro.
Ricordavo il suo sorriso amichevole... ma nient'altro di più.

Il resto scompariva nel buio, come fece anche lui.

I ricordi riprendevano dall'orfanotrofio in cui ero finita ed era come se fossi nata lì da un momento all'altro.
Fui adottata da due genitori stupendi, Maddalena e Steven, che mi ridiedero il calore di una famiglia che avevo scordato e mi crebbero sotto il loro tetto fino ai quindici anni.
La mia amnesia mi aveva portato a fare molte visite mediche e psicologiche, che con il passar degli anni erano pian piano andate a ridursi. Sembrava che non sarei mai più riuscita ad acquistare la memoria.
Questo fatto mi lasciava confusa.
Da una parte volevo sapere cos'era successo ma dall'altra... una strana sensazione di ansia mi suggeriva di non desiderarlo.
E ovviamente c'era qualche spiacevole conseguenza al mio trauma, come certe paranoie di sentirmi perseguitata da qualcosa.
Gli specialisti dissero ai miei genitori che doveva essere a causa di un particolare ricordo che veniva stimolato in continuazione.
Non si capiva quale fosse la causa, né di cosa si trattasse effettivamente, e nonostante gli sforzi non riuscivo a focalizzarlo.
Avevo la sensazione di essere osservata, non dalle persone, ma dai pupazzi nella mia stanza.
Era stupido.
All'inizio erano semplici giocattoli da arredamento, ma con il tempo i loro grandi occhi tondi sembravano fissarmi.
Come ogni bambino, anch'io da piccola credevo che i pupazzi nella mia stanza fossero vivi e ogni tanto cercavo di dimostrarlo: spiavo fuori dalla cameretta con la porta socchiusa, mi giravo all'improvviso per coglierli sul fatto oppure non distoglievo lo sguardo fino a sentire un lieve bruciore agli occhi.
Questo era uno dei pochi ricordi d'infanzia che riusciva a farmi sorridere, ma le cose erano cambiate.
Col tempo erano diventati i pupazzi quelli che mi osservavano.
Sembravano quasi volermi mettere alla prova, ed io non riuscivo più a sopportare quel pensiero fisso nella testa.
A volte mi sembrava che si spostassero, girando i loro musetti verso di me.
Altre volte, invece, i rumori nella mia stanza sembravano prodotti da loro stessi.
Ma ovviamente non poteva essere vero.
Perché questo pensiero mi perseguitava? Perché odiavo quei pupazzi? Perché nonostante questo non me ne liberavo? Avrei potuto regalarli ai bambini oppure buttarli semplicemente nella spazzatura.
Un giorno ci avevo provato, davvero, ma appena ne presi in braccio uno, un forte senso di ansia e terrore mi bloccò.
Finii sempre col rimetterli al loro posto, sui mobili, sul mio letto, sugli scaffali, ed ero dovuta arrivare a prendere dei tranquillanti. C
C'era un solo pupazzo che riuscivo a tenere con me durante la notte, nonostante la mia età non volevo separarmene e sentivo un affetto per lui che mi sembrava cominciasse molto prima della mia amnesia. L'avevo trovato nel mio armadio all'orfanotrofio e non ero più riuscita a separarmene.
Era un dolce coniglietto con le orecchie lunghe per tutta la su altezza, da un lato del corpo era rosso mentre l'altra era color caramello.
Aveva un gilet nero, due maniche lunghe fino ai piedi e un colletto fantasioso con le punte. L'occhietto sinistro era coperto da una bandana con dei fronzoli e al centro un bottone nero.
Era buffo, ma era anche l'unico che mi sembrava un semplice pupazzo innocuo.
Lui dormiva al mio fianco fin da quand'ero piccola come in quella sera, dopo che m'infilai sotto le coperte... addormentandomi quasi subito tra i cigolii delle vecchie mura.

Me ne stavo seduta in mezzo al buio, senza riuscire a muovermi e non capivo come fossi finita lì, circondata dal silenzio.
Qualcosa di viscido mi aveva afferrato il polso e lo stringeva così forte che il dolore era lancinante. Delle bianche unghie stavano lentamente penetrando all'interno della carne.
Le vedevo muoversi sotto la mia pelle facendomi sanguinare. Io urlavo e piangevo, ma una risata copriva le mie suppliche disperate.

«Lei mi appartiene». Due occhi luminosi spiccarono nel buio, a pochi centimetri dal mio volto.

«Siete solo d'intralcio».

Continuava a ripeterlo mentre mi torturava e il suo ghigno astioso balenava sopra di me.
Rideva divertito davanti al mio dolore, mentre mi conficcava aghi sotto le unghie e nella carne. Rovinava il mio corpo con arnesi arrugginiti, anzi... diceva di starlo aggiustando.
Notai una porta aperta, l'unica cosa che riuscivo a distinguere nel buio, e i miei occhi offuscati dal dolore scorsero delle persone immobili che mi fissavano.
L'immagine di quella porta si faceva sempre più vicina per mostrarmi i loro sguardi assenti, nonostante le smorfie che li modellavano il volto. Ma quelle non erano persone reali.
Erano bambole, e in qualche modo io provavo un forte senso di nausea a fissarle.
C'era qualcosa in loro che mi faceva rivoltare lo stomaco, e forse era la straordinaria, macabra somiglianza con le persone vere.

«Lei mi appartiene».

Jason the Toy Maker [Ita]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora