Il viaggio durò quasi cinque ore, durante le quali Alessia fissò solo il panorama. Si era portata dietro un libro da leggere -la lettura era l'unica attività che riusciva a confortarla, sebbene pochissimo- nel caso in cui si fosse annoiata, ma non lo aprì, non lo toccò neppure.
Il paesaggio infatti l'aveva stregata talmente tanto, che non riusciva a staccare gli occhi dal finestrino. La pianura padana quel giorno era uggiosa, una nebbia bassa e lattiginosa attraversava i campi brulli, le città e le rade colline. Il sole, nascosto da una leggera coltre di nuvole, donava ad ogni cosa un'aura grigia, malinconica, quasi mistica.
Alessia pensò che quel panorama di inizio febbraio era come lei, freddo, privo di vita, paralizzato in un perenne inverno. Eppure quel pensiero non la spaventò, anzi, le fece apprezzare ancora di più ciò che vedeva. Era bello sentirsi compresi, anche se da un paesaggio brullo e inanimato.Quando scese dal vagone la prima cosa che percepì fu una forte umidità, che la fece rabbrividire.
Respirò a fondo l'aria pungente e il freddo raggiunse ogni parte dei suoi polmoni. Quella strana sensazione la fece sorridere per la prima volta dopo quasi due settimane. Nonostante tutto, era felice di essere tornata a Venezia.Alessia aveva compiuto un sacco di viaggi a migliaia di chilometri dalla sua piccola città natale, era stata in Grecia, in Portogallo, negli Stati Uniti, in Tunisia; ma nessun posto esotico l'aveva colpita quanto Venezia.
Quella città aveva in sé qualcosa che la turbava nel profondo dell'anima, solo che non capiva cosa fosse. Forse era l'assenza di strade e automobili, forse erano i palazzi così raffinati e misteriosi, forse era la sua atmosfera così fosca, melanconica e romantica. Non riusciva proprio a comprendere, ma ciò non le dispiaceva affatto; almeno, per una volta, provava qualcosa che non fosse inadeguatezza e voglia di morire.
Poi la città le piaceva, le piacevano le case, i vicoli stretti, gli scorci sui canali, le gondole che avanzavano silenziose come oscuri fantasmi.
Le piaceva l'idea di non stare camminando sulla terra ferma e neanche su un'isola, ma su un complesso sistema di palafitte artificiali, che per quanto fossero solide, rimanevano solo palizzate e terriccio. Non era né in terra, né in mare, era in un luogo indefinito e mistico, nella fusione perfetta tra acqua e suolo, tra uomo e natura."Non potevo morire senza aver prima salutato questa meraviglia." Pensò, impaziente di uscire dalla stazione.
Una volta fuori, il Canal Grande e un gran vociare le diedero il benvenuto. Il piazzale era pieno di gente, turisti con macchine fotografiche enormi, venditori ambulanti, autisti di water taxi, guide turistiche si aggiravano per la zona in un tumulto di colori, suoni e profumi. Centinaia di facce diverse si mescolavano ad altrettante voci straniere e ad altrettanti corpi di ogni dimensione ed età.
Alessia trattenne il fiato per un istante, incassando la testa nelle spalle. Non le era mai piaciuto avere a che fare con degli sconosciuti o stare in mezzo alla gente in generale. Si sentiva costantemente osservata, giudicata da tutti quegli occhi crudeli che si posavano, anche solo per un istante, su di lei.
Per di più, fin da quando era piccola, aveva la fobia di rimanere travolta dalla folla, cadere ed essere calpestata.Ma questa volta decise di non dare peso alle persone intorno a lei e ai loro sguardi. Questo era il suo addio a Venezia e non poteva permettersi che la sua ansia sociale glielo rovinasse, anche perché non ci sarebbe mai più tornata lì. Doveva salutarla e doveva farlo per bene.
Così si calcò il cappuccio sulla testa, chiuse la felpa fino alla gola e aumentò il volume della musica.
All'improvviso tutti i rumori e i suoni esterni scomparvero, sostituiti da dei più piacevoli assoli di chitarra elettrica e batteria.
Le piacevano in particolare il rock e il metal, trovava che quella musica si mescolasse perfettamente con il mare in tempesta che aveva in testa e che danzasse con quelle onde oscure. Quando invece i cantanti urlavano, anche lei urlava internamente con loro e questo la faceva sfogare, sebbene spesso non fosse abbastanza. Talvolta si diceva che se non era ancora impazzita, gran parte del merito lo doveva alla playlist che custodiva gelosamente nel telefono.
Adesso non era più spaventata dalle persone, si sentiva dentro una bolla di vetro infrangibile, che la difendeva dagli altri e le permetteva di godersi la città senza distrazioni. Le sembrava di essere invisibile agli occhi degli altri e una parte di lei sperava, invano, di esserlo davvero.
Quella bolla era il metodo di difesa che tirava fuori quando si sentiva in serio pericolo o sull'orlo di una crisi di nervi. Ogni volta che i suoi genitori le urlavano contro, ogni volta che i suoi compagni la prendevano in giro, ogni volta che litigava con la sua (ex) ragazza, si chiudeva in quella bolla e si isolava dal mondo esterno. In quel modo, riusciva a reprimere ogni emozione e non fare trasparire nulla, sembrava una statua di ghiaccio, fredda e inespressiva. Sapeva che non era il meccanismo migliore da usare, sapeva che questo le impediva di vivere veramente, sapeva che reprimere le cose l'avrebbe solo distrutta di più, ma non sapeva cos'altro fare. Non era in grado di difendersi in altro modo.
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La fragilità della felicità
General FictionAlessia, 17 anni, vuole morire. Vittima di bullismo a scuola, incompresa a casa, i suoi unici amici sono depressione, ansia e il conforto dei tagli. Così, al culmine della disperazione, decide di compiere un ultimo viaggio per salutare le due città...