Capitolo 3 - Venezia

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Una volta bevuto il caffè ad Alessia sembrò di rinascere. Si sentiva ancora un po' provata, ma era così impaziente di proseguire il suo giro, che uscì dal bar mentre stava ancora mangiando una pasta alla crema.
Il cielo si stava schiarendo e radi squarci azzurri lasciavano filtrare un po' di timida luce solare.

La ragazza si sistemò lo zaino e riprese il suo cammino.
Non aveva in mente un itinerario ben preciso, né una vera e propria meta, non aveva neanche una mappa, ma aveva voglia di camminare e camminare, finché le sue gambe avessero retto. Lei, che aveva paura di ciò che non rusciva a controllare, che doveva sempre sapere dove si trovasse, oggi voleva perdersi in quel dedalo di vicoli e canali. Voleva girare ogni angolo della città, fino a riuscire a riconoscere ogni strada, ogni casa, ogni corso d'acqua.

La musica accompagnava ogni suo passo, creando la colonna sonora perfetta per quel suo errare.

"I walk this empty street
On the boulevard of broken dreams
Where the city sleeps
And I'm the only one, and I walk alone"*

Era così immersa in quelle parole, in quei suoni, che più volte le sembrò di trovarsi in un sogno e doveva far schioccare l'elastico che teneva al polso contro la sua pelle -cosa che faceva sempre quando aveva bisogno di tornare alla realt-. Si sentiva come se fosse in un film, quando partono quelle lunghe scene in cui i personaggi viaggiano con un sottofondo nostalgico e malinconico. L'idea che qualcuno potesse fare un film su di lei la fece sorridere, un sorriso triste e involontario.

"Sarebbe di certo un film drammatico, uno di quelli in cui al povero protagonista capita una sciagura dopo l'altra. Di certo farebbe piangere l'intera platea."

Alessia si immaginò la scena, un cinema buio, lo schermo che proiettava la sua vita sciagurata e il pubblico in lacrime, che singhiozzava e usava un fazzolettino dopo l'altro e la scritta, lapidaria, alla fine della proiezione:

"In memoria di Alessia, marzo 1999 - febbraio 2017"

"Vedi? A nessuno importa di te finché non sei sei metri sotto terra." pensò una voce maligna dentro di lei.

La ragazza pensava da anni questa cosa e ormai era arrivata alla conclusione che sarebbero stati, molto finemente, cazzi loro.
I suoi genitori, i suoi "amici", la sua ex ragazza, i suoi compagni di classe, tutti avrebbero percepito la sua morte come una loro colpa, perché così era alla fine. Avrebbero avuto per sempre un peso sullo stomaco e, ogni volta che avrebbero pensato a lei, avrebbero sentito un groppo in gola e gli occhi pieni di lacrime. Questa era l'unica vendetta che Alessia voleva avere, essere ricordata come "quella che abbiamo ucciso".

Perché era vero, ogni parola velenosa dei suoi amici, ogni scherzo malvagio dei suoi compagni, ogni pugnalata allo stomaco della sua ex, ogni insulto ricevuto sul web, ogni urlo dei suoi genitori l'avevano uccisa poco alla volta in una straziante agonia. Non erano state coltellate che l'avevano dissanguata in poco tempo, erano stati milioni di taglietti fatti con la carta, quelli che fanno un male pazzesco, bruciano, e non si richiudono mai. In poco tempo il dolore era già insopportabile, ma lei aveva lo sopportato per anni, molto più di quanto chiunque altro avrebbe mai potuto fare.

Lei avrebbe calato la ghigliottina sul suo collo, ma a portarla al patibolo erano stati tutti loro, un passo alla volta.

La ragazza iniziò a piangere, ma se ne rese conto solo quando le lacrime attraversarono le sue guance pallide e le solcarono il collo, bagnandole il colletto della maglia. Si fermò in mezzo a una strada e sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Non riusciva a tollerare il fatto di piangere in pubblico. Si asciugò gli occhi con la manica della felpa e fissò le nuvole finché non si fu calmata.

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