Capitolo 5

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Dopo circa venti minuti di cammino durante i quali il priore Doeth non aveva mancato di indicare ad Aaron i suoi luoghi preferiti del Domoten, i due erano giunti ad una gigantesca piazza che lo sguardo del ragazzo non riusciva ad abbracciare interamente.
Era un enorme piazzale a pianta circolare delimitato da un fitto colonnato interrotto solo nel punto in cui la via da cui erano arrivati Aaron e il priore si immetteva nello spiazzo e, dal lato opposto, dove una larga scalinata conduceva all'ingresso di un colossale edificio totalmente bianco, candido come uno scheletro spogliato di qualsivoglia brandello di carne che potesse inficiarne il pallore.
Al centro della piazza si ergeva un alto obelisco dello stesso materiale scarlatto della rebis che Aaron portava al collo, una lama sanguigna che si allungava come a voler ferire il cielo.

«Questo è il Castello d'Avorio, Aaron, qui è dove si raduna il Consiglio, gli uomini a capo della Congrega.» Spiegò il priore continuando a camminare col suo passo spedito verso la scalinata. 
«Quando ci sono questioni di importanza globale per i benim, i centocinquanta consiglieri eletti dai membri maggiorenni della Congrega si radunano qui e discutono sulle decisioni da prendere.»

Giunsero a pochi passi dall'alto obelisco al centro del piazzale. 
Aaron si ritrovò, come gli era capitato più di una volta durante il tragitto attraverso il Domoten, a fermarsi per osservare ammirato una qualche meraviglia di quel mondo che stava appena scoprendo, costringendo così il priore a interrompersi per aspettarlo.

Da sotto, l'obelisco appariva ancora più alto, una scarlatta Torre di Babele resa ancora più appariscente dallo sfondo latteo che la incorniciava.
Era ricoperta per tutta la sua altezza -una settantina di metri abbondante- di profondi solchi tinti di nero che andavano a formare un fitto mosaico di figure palesemente non umane: avevano braccia lunghe fino alle ginocchia e con due gomiti ognuna, teste leggermente ovali. Un paio di grandi arti simili ad ali spuntavano tra le scapole di quegli esseri dotati di una lunga coda.

Malgrado l'aspetto così alieno, gli individui incisi nella pietra erano raffigurati in quelle che sembravano scene di vita quotidiana: si andava dalle famiglie a tavola a piccoli gruppetti che ridevano sotto a quello che sembrava essere uno strano lampione. Alla base della costruzione le incisioni raffiguravano un gruppo di quegli esseri in mezzo a strani macchinari  mentre uno di loro, più grande degli altri, teneva nel palmo di una mano un piccolo essere umano.

Una breve frase in una lingua sconosciuta ad Aaron era incisa ai piedi dell'alta torre vermiglia.

«Dei non sunt, sed homnes qui pro eis loquuntur.» Recitò il priore Doeth «Non esistono Dèi, solo uomini che parlano in loro vece.» Tradusse accarezzando con lo sguardo la costruzione davanti a sé «Serve a ricordarci come, per quanto potere abbiamo, siamo solo uno strumento al servizio degli Elohim ma che, al tempo stesso, siamo parte integrante della loro più riuscita creazione, che siamo i loro messaggeri.» Fece una breve pausa, come se si fosse per un attimo perso in ricordi lontani, poi riprese il suo tono accademico e continuò: 
«Questo obelisco ci è stato donato dagli Elohim quando crearono il Domoten: è fatto dello stesso materiale delle nostre rebis, di cui a tempo debito ti verrà spiegata l'utilità, e serve a tenere lontani i siyim.»
«Come un campo di forza...» Disse Aaron sovrappensiero.
«Sì, più o meno» Il priore sorrise e sospinse con mano gentile il ragazzo verso l'edificio  in fondo alla piazza.

«Sono il priore William Doeth, dalla città di Shima, ho appuntamento con il Gran Consiglio per una questione della massima importanza.» Disse l'uomo ad un giovane benim dall'aria insofferente il quale, con evidente malavoglia, annuì e si allontanò verso una larga porta a due battenti dietro la quale sparì.

Aaron e il priore si trovavano in una grande sala completamente bianca all'interno del Castello d'Avorio.
Tutto, in quell'edificio, ne richiamava il nome: pareti, soffitti, porte, persino i volti delle guardie che vigilavano sul luogo sembravano pallidi come quelli di un fantasma. Unica nota di colore, in quel posto, erano gli arredi, tutti in un legno scuro e lucido in netto contrasto col bianco abbacinante che faceva da sfondo.

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