Ardente

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Cremlino, Palazzo Imperiale

Febbraio 1547


Era tardo pomeriggio. Nuvole grigiastre si muovevano silenziose sulla sommità di Mosca, trasportate da un vento implacabile. I tetti degli edifici parevano quasi toccare il manto omogeneo del cielo metallico, mentre in lontananza si udivano i borbottii di lampi e fulmini.

Dalla sua camera, Ivan osservava l'andirivieni di gente, carri e animali da soma. Percepiva una sorta di piacevole calore nel constatare che tutta quella vita brulicante dipendeva dalle sue parole. Imperatore. Un titolo che avrebbe pesato sulle spalle di qualunque uomo, una responsabilità enorme e un fardello per la mente. Ma Ivan aveva acciaio al posto del sangue e ingranaggi nel cervello.

Una mano candida, troppo bianca per essere vera, si aggrappò al suo petto.

« A che pensi? »

Ivan, rigido, ruotò appena il capo e intercettò l'esile figura di Anastasija. La donna appoggiava la guancia alla sua schiena.

Non era abituato a quelle dimostrazioni d'affetto: si scostò dall'abbraccio e strinse le labbra.

« Il mondo intero ora è consapevole della mia presenza. Dovrò lottare duramente per conquistare un posto tra i grandi sovrani di questo tempo. »

« Sei un imperatore. Nessuno può dirti cosa fare o dove andare. Non ti basta? »

« No. Non mi basta. »

Anastasija corrugò la fronte e fece un passo verso di lui. Poi, dolcemente, cominciò a stuzzicarlo con piccole carezze sul ventre.

« Hai solo bisogno di un po' di compagnia. Magari oggi potrei accompagnarti ai ricevimenti che... »

« NO! » ringhiò Ivan. « Starai qui, come sempre. »

Anastasija abbassò la testa e congiunse le mani.

« Come desidera, signore. »

Trascorsero alcuni secondi di silenzio. Nel manto di nubi si aprì uno spiraglio e i raggi pallidi del sole rischiararono la stanza. La luce fece baluginare mille e più intarsi dorati, immergendo pareti e mobili in un riverbero arcobaleno.

Ivan si pinzonò il naso con due dita e sbuffò. Chiuse gli occhi, traendo beneficio dalla rinnovata oscurità.

« Ti chiedo perdono per la mia ferocia. » sussurrò, scandendo ogni sillaba.

Anastasija Romanovna, che non possedeva un carattere debole, sorrise e annuì. Aveva già assorbito e compreso gli sbalzi d'umore del marito.

« Puoi dirmi quali sono le tue paure? »

« Voglio solo proteggerti. La nobiltà mi ha privato di ogni cosa, non permetterò che prenda anche te. »

« Starò attenta, non preoccuparti. »

« Sono cani rognosi travestiti da uomini. Tenteranno di morderti appena volterai loro le spalle. »

« Ma il mio lupo non permetterà che questo accada, giusto? »

Ivan accennò un sorriso. Erano trascorsi dieci anni dall'ultima volta che le sue labbra si erano increspate in quel modo.

« Certo. Ora devo andare. » Tentennò. « Metterò sei guardie fuori dalla porta, a tua completa disposizione. »

« Grazie. »

Imperatore e moglie accennarono ad un contatto. L'intenzione rimase sospesa nell'aria e scomparve all'istante.

Il cuore di Ivan era ancora stretto da fili spinati e incastonato in lastre di ghiaccio.



Cremlino, Palazzo Imperiale

21 Giugno 1547

I rappresentanti fecero il loro ingresso nella sala del trono poco dopo l'alba. Erano giunti da lontano e la pioggia non aveva agevolato il loro viaggio. Indossavano scarponi pesanti e carichi di fango, mantelline fradice e larghi cappelli ricoperti di pelliccia. Le barbe gocciolavano.

« Ti ringraziamo per il calore del tuo palazzo, magnifico Zar. » esclamò uno, avanzando sul tappeto rosso che conduceva allo scranno imperiale. « Non prenderemo molto del tuo tempo. »

Lo Zar sedeva malamente sul trono, un gomito appoggiato sul bracciolo e la testa reclina. Gli occhi neri rimanevano fissi sulla delegazione e bruciavano di malcontento. Diverse guardie armate erano disposte lungo i fianchi della stanza, pronte ad eseguire il volere del signore. Le fiamme racchiuse nelle torce a parete guizzavano, aggredendo i contorni delle ombre.

« Perché siete qui? » domandò bruscamente Ivan.

I rappresentanti venivano da un piccolo villaggio del principato e non sapevano nulla dello Zar. Erano in quattro e si guardavano di sottecchi ad ogni passo. Probabilmente avevano preparato un discorso o una serie di richieste, ma l'approccio aggressivo del sovrano li aveva lasciati storditi.

Il primo interlocutore proseguì balbettando.

« N-noi veniamo da... »

« Non mi interessa da dove venite. Perché siete qui? »

« Sì, ecco...il nostro v-villaggio è ai confini del regno e p-patisce la presenza straniera. Il g-governatore tollera i f-furti di bestiame da parte dei... »

Ivan si agitò sullo scranno e sbuffò ripetutamente.

« E io cosa dovrei fare? »

Il villico lanciò un'occhiata alle guardie e deglutì a forza.

« Potrebbe...potrebbe intervenire e r-richiamare il governatore a palazzo. Basterebbe una lettera... »

« Non m'interessa. Potete andare. »

« Magnifico Zar, noi... »

« HO DETTO CHE POTETE ANDARE! Perché siete ancora fermi lì? Desiderate forse un saluto? »

Ivan si alzò, tremando e digrignando ferocemente i denti. Aveva gli occhi fuori dalle orbite. Contò rapidamente le guardie che aveva a disposizione e puntò un dito sulla delegazione.

« Prendeteli e cospargete le loro barbe con dell'acquavite. Poi bruciateli, così non patiranno il freddo della pioggia. »

Otto soldati circondarono il gruppo, le picche dispiegate in avanti. Un'altra coppia di militari, invece, andò a prelevare alcune giare dai magazzini imperiali e una lampada da passeggio.

Sotto lo sguardo annoiato di Ivan, i rappresentanti del villaggio vennero cosparsi di acquavite. Le urla disperate potevano essere udite anche al di fuori del Cremlino.

Poi, improvvisamente, un servo apparve quasi per magia accanto al trono dello Zar; il ragazzo ansimava ed era sudato, chiari sintomi di una corsa a perdifiato.

« Che diavolo vuoi? » chiese subito Ivan, vibrante di rabbia.

Il servo respirò profondamente e si umettò le labbra.

« Mosca sta bruciando. »

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