CAPITOLO IV: IL RISVEGLIO

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<< Oh mio Dio, è un miracolo! >> gridò mia madre incapace di credere ai suoi occhi.
Non feci neppure in tempo a rendermi conto di cosa stava accadendo che subito venni travolta da una dozzina di dottori, tutti intenti a farmi domande e ad esaminarmi da cima a fondo.
Ma l'unica cosa che volevo fare era chiedere perdono a mia madre, per quanto sapessi che il nostro rapporto non sarebbe stato più come prima.
Mi voltai verso di lei ma invece delle parole dalla mia bocca usciva poco più che un sussurro.
Perché non riesco a parlare! Aiutatemi gridavo dentro di me. Il primario, tale Dr. Jones, vedendomi in preda al panico mi
tranquillizzò.
<< Non temere piccola, ti sei appena svegliata. E' normale, vedrai che tra un po' tornerai come prima >>
Tra un po'?! Come sarebbe a dire? Tra due giorni? Una settimana? Un MESE?!
Nei giorni successivi ricevetti una montagna di biscotti e biglietti di auguri, la maggior parte da persone di cui conoscevo a malapena il nome.
Persino la Beilys, la peggior vicina di casa che ti possa capitare, mi fece un regalino – se così lo vogliamo chiamare – di BENTORNATA.
Era un bocciolo di rosa bianca, con uno di qui bigliettini che si trovano al supermercato per 50cent, ma mi fece piacere ugualmente.
Presto però riaffiorò con prepotenza il ricordo di GAB – le rose bianche erano le sue preferite – e così piombai di nuovo nella tristezza.
Mi sentivo così sola senza di lui: era l'unico che mi capiva, l'unico che mi conosceva veramente ma soprattutto l'unico che AMAVO.
Ma questo purtroppo non l'avrebbe mai saputo. Scese la notte e come al solito non riuscivo a dormire.
Avevo paura che se avessi chiuso gli occhi di nuovo mi sarei ritrovata in quell'oscurità che fino a qualche giorno prima mi teneva intrappolata impedendomi di risvegliarmi, e non sarei più riuscita ad uscirne.
Poi però, esausta, crollai.
Più i giorni passavano, più mi rendevo conto di quanto la cose fossero cambiante da quel giorno in cui, in preda alla disperazione, tentai invano il suicidio.
Sul mio corpo i segni delle mie decisioni, due cicatrici che non passavano certo inosservate.
Quando incrociavo una persona per strada, questa non mi trattava più come prima: mi guardava con occhi diversi, colmi di tenerezza, di tristezza, di compassione.
Qualcuno aveva persino iniziato a chiamarmi "la sopravvissuta " ed ogni volta sentivo una pugnalata al cuore.
Nessuno aveva idea di cosa avessi passato, di quanto disperatamente avessi lottato per rimediare al mio errore.
Anche mia madre, nonostante cercasse di non darlo troppo a vedere, era cambiata.
Evitava i miei sguardi, mi parlava a stento.
Certo, mi amava ancora, ma lo faceva in un modo diverso, come si fa con un cucciolo ferito.
L'unica a non essere cambiata era Sarah.
Era sempre solare, sorridente, come se nulla fosse accaduto.
Cercava di tenermi su di morale, scherzava con me e mi dava coraggio sostenendomi mano nella mano giorno dopo giorno.
Purtroppo però, quando restavo sola, il mio pensiero tornava a Gab, il mio primo ed unico amore, e sprofondavo di nuovo nella tristezza.
<< Signora Steel, mi spiace doverle dare questa notizia, ma temo che sua figlia soffra di un disturbo da stress post-traumatico>>.
Queste furono le esatte parole che uscirono dalla bocca della Dott.ssa Jane, la psicologa alla quale mia madre – ovviamente contro la mia volontà – aveva deciso di rivolgersi nella speranza di farmi tornare quella di sempre: voleva riavere indietro sua figlia.
Ma questo non era più possibile: non potevo essere come prima! O forse non lo volevo.
Alla Dott.ssa Jane bastarono solo poche sedute per giungere a quella stessa conclusione.
Devo ammetterlo, era davvero in gamba.
<< Puoi aspettarci fuori dallo studio – disse lentamente mia madre, le lacrime che le rigavano il viso – arrivo subito>>
Ubbidii, ma chiusa la porta, invece di ritirarmi in un angolo, appoggiai l'orecchio al legno e rimasi in ascolto.
Infondo che male c'è... stanno pur sempre parlando di me.
<< Signora – disse la psicologa con tono triste – le condizioni di sua figlia sono più preoccupanti di quanto inizialmente pensassi. E' fragile come una foglia, dorme a stento e tende ad isolarsi dalle persone a cui tiene di più, quelle a lei più vicine. Credo che sia una specie di punizione auto-inflitta >>
Continuò a discutere con mia madre per una decina di minuti, poi abbassò la voce, come se sapesse che stessi ascoltando.
Dovetti concentrarmi al massimo per sentire cosa diceva.
<< Lo so bene che è sconsigliato per una ragazzina della sua età, ma nello specifico caso di sua figlia, credo sia l'unica soluzione possibile. Non dimentichiamo che ha persino tentato il suicidio non molto tempo fa >>
Nel preciso istante in cui pronunciò quella frase, mi guardai involontariamente i polsi e avvertii un fastidioso bruciore, come se le cicatrici stessero pulsando.
Non fui più in grado di seguire la conversazione, solo alcune frasi.
Prima che mia madre uscisse dallo studio della psicologa le udii pronunciare quelle parole che mi colpirono come un pugno allo stomaco.
<< Se non c'è altra soluzione ne parlerò con lei, ma non so come potrà reagire>>
Che diavolo avete in mente pensai preoccupata.

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