1~Ice

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La luna, argentea e splendente, si rifletteva, eterea come non mai, sul maestoso lago ghiacciato. Le crepe formatosi sul terreno scivoloso facevano parere la bianca madre delle stelle piena di lunghe cicatrici, o rughe profonde.
La candida neve aveva smesso da poco di cadere, pacata concigliatrice di sonno eterno. Uno strato di forse quindici centimetri allontanava il mondo dalla solida e sicura terra. Quindici centimetri di soffice manto bianco incarceravano la vita in un regno di sogno.
La brina impreziosiva ogni foglia ed ogni ago che stringeva ancora i denti contro il freddo, mutandolo in pietra infinita.
Una lieve nebbia circondava ogni cosa, non facendo che aumentare l'irrealisticità del momento. C'era un silenzio imperioso, pesante. Il mondo, il mondo era forse morto?
I rami secchi e privi di vita di un albero cadaverico si stiracchiavano ed indicavano con indifferenza un dettaglio che dall'alto della loro maestà poteva risultare invisibile ma che, man mano che si faceva più vicino, non passava più tanto inosservato.
Un animale si trascinava pesantemente sulla candida neve.
Il suo passaggio era scandito da una lunga via di neve intrisa di rosso.
Ogni tanto la bestia si fermava per tossire e sputare fuori un grumo purpureo ma riprendeva sempre la sua lenta traversata, senza mai pensare al riposo.
Se si fosse seguita a ritroso la scia rossa si sarebbe dovuto camminare a lungo prima di scoprirne la causa; infine si sarebbe incappati in un cadavere: una volpe rossa, fatta a pezzi, appena ricoperta di una spolverata di neve.
La gatta vincitrice, perché di una gatta si trattava, arrancava ora avanti, non poi così lontana dall'imitare la fine della sua vittima. Alzava le zampe per camminare come in sogno e le ributtava a terra di peso, lasciando profonde impronte insanguinate che dall'alto risultavano tali e quali a piccole ma innumerevoli ferite sul manto innevato. Teneva gli occhi serrati. Stringeva fra loro le zanne da cui il sangue era già scivolato via: i denti si incastravano perfettamente fra loro, lo si vedeva chiaramente attraverso il nero muso sfigurato da un ringhio rivolto verso il nulla innevato. L'espressione di odio era però imperfetta, spezzata a metà da un profondo taglio arrossato. Qualche goccia di sangue sfuggita dalla ferita si spinse fino a solleticarle il naso nero. La gatta starnutì ed ebbe un brivido di freddo. Il rivolo di sangue, sebbene decimato dallo starnuto che aveva spruzzato gran parte del liquido sulla neve, andò avanti seguendo la curva del profilo: infine si trovò a gocciolare a terra dal pelo candido della gola, assieme a fuoriuscite ben più copiose, vittime dei tentativi falliti della volpe di mordere e strappare la giugulare del felino. Un collare blu, che oramai tanto blu non era, torturava la gatta, strofinandosi continuamente contro svariate ferite.
Il vento fischiò e scosse un ramo di pino, che lasciò ricadere, quasi con dolcezza, un carico di neve sul felino. La gatta si fermò per apprezzare appieno la freschezza del ghiaccio sulle ferite ancora aperte. La neve più a contatto col sangue presto si sciolse e diluì il liquido viscoso, che cadde a terra e quasi scomparve, mangiato da un bianco più potente di lui. Dunque la gatta si scosse via i fiocchi: il risultato fu una nevicate di sangue.
Una fitta le colse la schiena dove un morso particolarmente insidioso la stava torturando da tempo. La bestia si contorse e cadde a terra. Si richiuse in posizione fetale e uggiolò piano mentre frustava la neve con la coda nera.
Un paio di sofferenti occhi azzurri come il cielo estivo e circondati da un profondo mare di disperazione scura si alzarono verso la volta stellata, attraverso i fitti aghi.
I mille astri, tanto belli ma assolutamente irraggiungibili, incantarono la gatta... oppure fu la gatta, sfinita ma tremendamente potente, a incatenare gli astri nel secondo cielo dei suoi occhi?
L'universo si fermò per un eterno istante, ghiacciato non dal gelo dell'inverno ma dalla situazione straziante; poi, la gatta si tirò faticosamente in piedi. Ricominciò il suo lungo viaggio.
Da dietro pareva non avere zampe: il pelo bianco, pulito dalla neve disciolta che vi si appiccicava ad ogni passo, si confondeva nello sfondo chiaro. Si scorgeva solo il pelo nero, assai più scuro della notte illuminata dalle stelle.
La luna pareva più luminosa del solito mentre distendeva la sua luce impalpabile sulla schiena nera e ne delineava il costato ben evidente. Illuminò anche gli artigli che la gatta sfoderava e rinfoderava, forse per concentrarsi in un atto più dolce e naturale della stremante camminata.
La neve prese a cadere di nuovo. Inizialmente fu quasi difficile rendersene conto; poi, piano piano, la neve cominciò a stringersi e cercarsi, così da formare un vero muro, largo e spesso.
Un uccellino infreddolito, terrorizzato, si era posato sul ramo indicatore dell'albero addormentato. Era molto piccolo. Tutto intirizzito si richiudeva fra le sue piume e con i suoi occhietti scuri e indifferenti al male altrui osservò la gatta e la sua scia arrossata scomparire all'orizzonte, mangiata dalle fauci della tempesta latente.
L'uccellino spiccò il volo.
L'albero morto rimase solo.
Ripensò appena ad Ice, una "gatta coraggiosa"; poi si lasciò scuotere dal vento, e un soffio più forte degli altri lo sradicò.

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