Il ticchettio leggero della lancetta vibrava sotto la mia pelle e rimbombava nella mia testa amplificato fino a risultare quasi insopportabile. Un gelido monito. Costante e ripetitivo. Più tentavo di ignorarlo più esso si insinuava tra i miei pensieri, affondava nel mio sangue e guidava il battito del mio cuore, impostandolo sulla sua stessa frequenza. Stavo impazzendo. L'ansia mi dilaniava, ingigantita e resa famelica da quel continuo battito proveniente dall'orologio a muro. Eppure i secondi scorrevano. Incerti; quasi congelati; ma inesorabili. La porta di legno, alta e massiccia, in quel momento ai miei occhi quasi insormontabile, rimaneva chiusa.
Chiusi.
Gli occhi di mia madre, il volto scarno e pallido, le labbra tremanti che ancora disperatamente tentano di curvarsi in un sorriso.
Chiusa.
La porta dell'ascensore, sottraendo il lettino su cui è distesa dalla nostra vista; facendola sparire in uno scuro vortice di nulla.
Deglutii, cercando di eliminare quell'immagine dalla mente: ma come la polvere sotto le unghie questo servì solo a farla sprofondare più in basso, sotto la pelle, sotto i pensieri, sotto i ricordi; stabile ed eterna. All'improvviso la porta si aprì, facendomi sobbalzare; a causa del movimento scomposto gli occhiali mi si inclinarono di lato.
-Eccomi! – gridò la voce immotivatamente allegra del ragazzo appena entrato nella mia visuale ora non più perfettamente dritta. Rilassai muscoli che non mi ero neanche reso conto di stare tendendo.
-Finalmente! Ci hai messo un'eternità – Emisi lentamente all'esterno l'aria che si era accartocciata lungo la gola contro la mia volontà: era la prima volta che mi sentivo così felice nel vedere mio fratello. Lui rise, con quel suo solito ghigno irritante che mi fece immediatamente pentire del mio precedente sollievo, e lasciò cadere a terra il borsone scuro che prima pendeva a tracolla dalla sua spalla destra.
-Ti sono mancato? – mi chiese, con un sorriso sornione; ma nonostante il tono di scherno della sua voce e la solita scintilla ironica che traspariva dai suoi occhi castani, sembrava stanco. Stanco e teso. Stanco e spaventato. Questo pensiero mi provocò un brivido lungo la schiena: mio fratello non era mai spaventato. Mi raddrizzai gli occhiali sul naso e gli lanciai uno sguardo irritato.
-Allora? – domandai bruscamente, apparendo forse più alterato di quanto non fossi in realtà: non sono mai stato molto bravo a gestire l'ansia. Anzi. Andrea si guardò intorno, improvvisamente serio: ma nel piccolo salotto di casa nostra, oltre alle nostre presenze, un divano, un vecchio televisore e un armadio a muro, non c'era nient'altro.
-Lui dov'è? – chiese, continuando a guardarsi intorno cautamente e lanciando un'occhiata verso il corridoio buio alle mie spalle.
-È al lavoro. Siamo soli, tranquillo – L'ultima cosa che volevamo era coinvolgere nostro padre in questa storia.
-Bene- rispose, prima di sedersi sul divano al mio fianco. Io continuavo a guardarlo, in attesa, quasi trattenendo il respiro per lo sforzo di non cedere all'impazienza e iniziare a gridare.
-Ho l'indirizzo – disse finalmente, dopo una pausa ad effetto che mi era sembrata eterna. Sorrise trionfante ed estrasse un foglio di carta piegato in due dal borsone; me lo porse. Io lo afferrai e lo aprii cautamente: sembrava una piantina di una qualche struttura, disegnata a mano con una penna.
-Quella è la cartina del posto– continuò Andrea. Sembrava stranamente professionale, tutto ad un tratto. -Nei registri comunali risulta essere una vecchia fabbrica abbandonata, di proprietà del Comune –
-Come sai che è il posto giusto? – chiesi, continuando ad osservare la piantina: al centro era disegnato un enorme spazio circolare, ma l'unico modo per accedervi sembrava essere una porta che sul foglio era cerchiata in rosso. Cosa significava?