Capitolo 1

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Ero seduta in una stanza con pareti bianche verniciate da poco, un paio di quadri con cornice di legno scheggiato appesi alle mie spalle, sedie di acero pesanti occupate da poche persone che non avevo mai visto prima. Un uomo leggeva una rivista, una signora rovistava nervosamente nella sua borsa in cerca di una caramella, un'altra, più anziana, sembrava quasi addormentata con la testa canuta appoggiata sullo schienale.
La luce del neon era talmente forte da non riuscire quasi a tenere gli occhi aperti.
Tutto era calmo e silenzioso.
Ad un tratto una porta si aprì piano piano e udii una voce di donna chiamare il mio nome.
Mi alzai quasi a rallentatore e con aria titubante entrai.
Era uno studio medico: c'era un lettino coperto dal rotolo di carta bianca, una scrivania piena di carte, una finestra senza tende che permetteva di entrare la luce quasi abbagliante del sole. Tutto era così rilassante e altrettanto silenzioso.
Una donna sui cinquant'anni, in camice bianco, capelli corti appena messi in piega dalla parrucchiera, occhiali da vista che anche se ingrandivano gli occhi, non mostravano alcuna ruga, con catenella dorata legata alle astine, una gonna nera a tubino che si intravedeva sotto il camice.
In silenzio prese una lastra. C'era il disegno di un cervello e in contrasto un'enorme macchia nera.
Lo sguardo del medico si fece serio.
«Mi dispiace ma dalla lastra abbiamo constatato questa massa scura. È' abbastanza grave ma comunque dobbiamo prima approfondire con delle analisi più dettagliate» disse la donna guardandomi negli occhi.
Sentii il mio cuore rallentare ma ero paradossalmente calma.
La dottoressa prese una penna laser che proietta la luce e me la mise davanti agli occhi e pian piano la spostò verso sinistra e verso destra.
Lo sguardo della donna cambiò di colpo e diventò allora più ombroso.
Fu allora che mi sentii mancare il fiato e con un filo di voce dissi: «I miei occhi non hanno seguito la luce?»
«No» fu la risposta secca e cupa.
«Guuuuueeeee» il pianto di mio figlio mi fece trasalire e mi ritrovai nel mio letto.
Era un sogno.
Si.
Solamente un sogno.
Mi alzai di scatto e corsi verso il lettino e guardai il cucciolo d'uomo che tanto amavo. Aveva solo sei mesi ma aveva già riempito il mio cuore di amore.
Smise di piangere e mi guardò. Gli porsi il ciuccio che penzolava dalla catenella e prima di coprirgli la bocca, un suo sorriso mi fece cambiare il brutto pensiero fisso sul sogno appena avuto.
Prendendolo in braccio, mi diressi in cucina e iniziai a preparare il latte scaldandolo al microonde: ormai era un'azione così meccanica e ripetitiva che neanche mi accorgevo dei movimenti che facevo.
Ero soprappensiero  ma ormai avevo già dimenticato sia il perché ma soprattutto quel sogno.
Ero una mamma single. Il mio ragazzo mi aveva lasciata prima ancora di sapere che aspettassi un bambino e l'orgoglio mi aveva impedito anche di farglielo sapere.
Mi ero ben guardata dal trasferirmi in un'altra regione. Non avevo una famiglia vicina purtroppo: avevo cambiato città per seguire l'uomo che amavo. Non potevo tornare a casa dai miei genitori. Non volevo sapessero questa mia sconfitta. Non potevo dire che avevo un figlio. Non potevo dire che mi ero lasciata con quel ragazzo che tanto avevano odiato perché mi aveva portato via da loro.
La soluzione più facile fu quella di trovare una nuova casa in una nuova città e ripartire da zero lontana da tutti e da tutto.
Per fortuna lavoravo per una multinazionale che aveva più filiali in tutta Italia e quindi approfittai subito della situazione sfruttando anche il ruolo elevato che ricoprivo e che mi dava agevolazioni, come una casa retribuita e il nido direttamente in sede. Non potevo chiedere di meglio in questa vita così avversa verso di me.
Presi il tailleur nero che avevo preparato la sera precedente sulla sedia e lo indossai guardandomi allo specchio: per la responsabilità che ricoprivo parlando con i maggiori clienti stranieri, continuavo a curare il mio aspetto. Se non fosse stato per il lavoro a quest'ora sarei stata ancora in tuta, mollettone fucsia che raccoglieva la mia grande quantità di capelli biondi mossi, pantofole rigorosamente ai piedi e per non parlare delle macchie di rigurgito sulla spalla sinistra dove ero solita appoggiare il mio piccolo Daniele per fargli fare il ruttino.
Mi truccai gli occhi con ombretto azzurro e eye-liner nero che risaltavano il mio color celeste, un po' di terra sugli zigomi che contrastavano la mia pelle di porcellana e il gloss trasparente sulla bocca: avevo una riunione importante quella mattina e lo misi solamente per questo motivo. Altrimenti non ero solita mettere il rossetto perché era impossibile per me non baciare mio figlio. Era un'azione incontrollata. Non ne potevo fare a meno di sentire la pelle morbida e profumata di quelle guanciotte rosee sulle mia labbra. Con il gloss purtroppo dovevo controllarmi.
Preparai Daniele, dopo un cambio di pannolino veloce, con una polo con un orsetto azzurro e pantaloni blu scuro con orlo dello stesso colore della maglietta, presi il giacchino leggero perché di mattina faceva sempre un po' freschino, e lo misi nel passeggino: oggi non so perché avevo voglia di camminare.
Le strade erano già trafficate. Le persone indaffarate andavano e venivano intorno a me con una tale velocità che non vedevo nemmeno i volti. E neanche li volevo vedere. Andavo spedita verso l'ufficio.
«Paola». «Paolaaaa» una mano mi toccò la spalla.
Mi voltai ed era Lisa la stagista che lavorava nella mia filiale. Non la conoscevo di persona, o meglio, non volevo conoscerla più del dovuto mantenendo le distanze così come con tutti i miei colleghi. Avrebbero fatto domande. Troppe domande. Molte delle quali a cui non avrei saputo rispondere: non volevo avere amicizie "scomode".
Lisa era la classica giovane neolaureata di 24 anni, piena di vita ed energia, ancora ricoperta da una bambagia che le impediva di vedere la realtà: il mondo faceva schifo.
Mora, occhi scuri, sempre vestita di nero per nascondere le sue rotondità, se non obesa ma poco ci mancava. Non si curava molto del suo aspetto fisico, ma capello sempre pulito e occhiali lindo con montatura grande da nascondere gran parte del viso.
«Hai visto Marinelli cosa ha combinato ieri? C'eri o eri già uscita? Non credevo ai miei occhi.. Io non avrei mai fatto quella piazzata..» Continuò lei affiancandosi al passeggino e proseguendo la strada insieme a me.
Io neanche l'ascoltavo. Parlava veloce. Troppo veloce per riuscire a seguire i suoi ragionamenti a quell'ora del mattino.
Annuivo.. Senza seguire realmente il filo del discorso e continuando a guardare dritto davanti a me pensierosa.
«Secondo me aveva ragione. In fondo aveva chiesto solo un permesso, ma di certo non poteva dirlo in quel modo» disse.
«Mmm..»Fu il massimo che uscì dalla mia bocca.
«Sai, dicono che vogliono togliergli il grosso cliente che aveva tra le mani. Deve arrivare in questi giorni, tu sai quando? Forse anche oggi. Ma come faranno? A chi lo affideranno? Sai, è un imprenditore molto conosciuto dalle sue parti. Dicono abbia comprato anche una squadra di calcio. Tu segui il calcio? Ieri mi sono addormentata guardando la partita in tv. Ma come fanno gli uomini ad appassionarsi di quello sport così stupido? E quanto li pagano i calciatori... Ma per far che cosa poi? Correre dietro ad una palla».
Io sentivo e non sentivo. Non mi interessava sinceramente del cliente, anche se di calcio ero una grande appassionata, ma di certo non lo avrei mai rivelato a lei.
Meno male che eravamo arrivate: il portone vetrato era stato appena pulito: luccicava e rifletteva i raggi di sole quasi accecandomi.
Citofonò prima di me e spalancò la porta per farmi passare col passeggino che come ogni mattina si incastravano le ruote. Feci un movimento un po' più brusco del solito e un ragazzo in fondo al corridoio mi guardò. Non l'avevo mai visto prima, nonostante ci lavorassero molte persone in quegli uffici e non li conoscessi tutti, quel viso mi era del tutto nuovo.
Un uomo giovane, raffinato ed elegante, con un completo blu scuro e una camicia bianca sbottonata sul collo senza cravatta. Moro con gli occhiali da sole scuri tirati su tra i capelli e gli occhi chiari. Veramente un bell'uomo. «Serve una mano?»
«No grazie.. Ce la faccio. Al massimo butto giù la vetrata, non è un problema.» Farfugliai arrossendo e sentendo le guance surriscaldarsi un po' per il sole, un po' per la fatica e un po' per quella visione inaspettata.
Schiacciò il bottone per chiamare l'ascensore e noi ci avvicinammo.. Anche Lisa era stranamente silenziosa e con la coda dell'occhio vedevo che continuava a fissare quel bel ragazzo.
Le porte si aprirono e salimmo tutti e tre: eravamo ora così vicini.
Il misterioso ragazzo iniziò a guardare Daniele sorridendogli il quale a sua volta lo fissava con i suoi bellissimi e grandissimi occhioni color nocciola. Si sorridevano e in quel preciso istante sentii una morsa al cuore per il fatto che mio figlio non avesse un padre vicino a cui regalare quello splendido sguardo incantato.
Arrivammo al 5 piano e uscii dall'ascensore, «grazie» fu l'unica cosa che riuscii a dire «buona giornata» e non mi voltai nemmeno lasciando Lisa e quell'uomo a proseguire il loro viaggio verso il piano successivo. L'asilo era piccolo ma funzionale con due insegnanti giovani che allietavano i bimbi piccoli fino ai tre anni, dopodiché avrei dovuto cercare una scuola materna nella città. Mentre mi avviavo nel lungo corridoio silenzioso sentivo gli sguardi dell'insolita coppia puntati su di me fino a quando non sentii il rumore delle porte che si chiudevano alle mie spalle e tirai un sospiro di sollievo anche se non sapevo perché.
Lasciai ad Anna il mio piccolo Daniele. Era un bimbo dolcissimo e molto socievole quindi andava volentieri, soprattutto con questa maestra che lo adorava.
"Ciao Daniele" gli sorrise "che bell'ometto che stai diventando è come ti ha vestito bene la tua mamma".
Anche se non capiva cosa gli stesse dicendo, il mio cucciolino per la voce e il grande sorriso che Anna gli fece, sorrise a sua volta subito.
"Ciao amore mio" facendo un sorriso a mia volta e riattraversai il corridoio prendendo l'ascensore.
Arrivata al settimo piano, vidi uno strano fermento. Sembravano tutti molto agitati e non riuscivo a capire quale fosse il motivo.
Entrai nel mio ufficio e accesi il computer come tutte le mattine, ma questa volta non feci in tempo di sedermi che squillò subito il mio telefono.
"Paola subito in ufficio di Agostini" era Dora la segretaria dell'amministratore delegato della società. Il grande boss voleva vedermi. Cosa stava succedendo?
Mi alzai e salii ancora con l'ascensore, si può dire che il decimo piano lo avessi visto solo una volta il giorno dell'assunzione e poi mai più. Se ne dicevano tante su quell'uomo e su quel livello di palazzo. Mi stavano iniziando a sudare le mani, mi controllai allo specchio e iniziai a fare dei respiri per prendere più aria possibile.
Le porte si aprirono e entrai direttamente in un corridoio con il vetro a soffitto che incanalava la luce del sole rendendo tutto più surreale. Le pareti erano bianche che risaltavano quadri di arte moderna con colori sgargianti e cornici che riprendevano il colore dominante delle singole tele.
Le porte degli uffici erano chiusi e ognuna di esse erano contraddistinte dalle targhette dorate con i nomi di chi ci lavorava all'interno. Erano poche ma non mi fermai a leggere i nomi: sapevo che l'ufficio di Agostini era l'ultimo in fondo che dava sul mare.
Mi fermai davanti alla porta e raccolsi tutta l'aria che potevo e espirai.
Toc toc
"Avanti" sentii la voce di Dora, una donna sulla sessantina, segretaria dai tempi che furono e donna fidatissima del boss, senza di lei non riusciva a fare un passo.
"Buongiorno Dora" le sorrisi.
"Paola buongiorno, si accomodi pure" e prese il telefono " È' arrivata la signora Dovico" e mise giù la cornetta.
Mentre ero seduta su una poltrona rossa di pelle iniziai a pensare al perché fossi lì e non riuscivo a trovare spiegazione. In fondo il mio lavoro l'avevo sempre fatto. E non per vantarmi, ma ero anche brava. Cercavo di visualizzare i dossier da me preparati, le varie presentazioni in power point, le varie riunioni. Non riuscivo a trovare una falla anche perché l'unica mia attività sociale era lavoro e Daniele: ci dedicavo anima e corpo. No. Non avevo sbagliato niente. E sospirai.
Dora mi guardò, mi sorrise ma non disse niente.
Il cicalino del telefono mi fece sobbalzare.
"Può entrare".
Mi alzai e mi diressi verso una porta con due ante scorrevoli e le maniglie erano così luccicanti che mi lasciarono perplessa.
Ne aprii una con una tal forza che si spalancò non pensando fosse così leggera e la richiusi alle mie spalle cercando ora di fare il minimo rumore.
"Buongiorno Dovico venga si accomodi" il grande Agostini era lì, davanti a me, seduto dietro la sua gigantesca scrivania di legno massiccio rovere rosso, sedia di pelle con schienale due volte più grande di lui, computer acceso girato verso la sua postazione con chissà quali segreti e telefono nero di fianco.
Era un uomo sulla cinquantina, calvo con occhi azzurri e pizzetto ben disegnato biondo. Alle sue spalle delle grandi vetrate da cui entrava il sole ma chiaramente si vedeva l'azzurro del mare.
Una pianta gigante di ficus Benjamin arredava la stanza, oltre una grande libreria con fascicoli in ordine e una poltrona sempre di pelle come quella vicino alla sua segretaria ma di colore nera anziché rossa.
Mi sedetti davanti a lui e avvicinai le gambe in sorta di chiusura difensiva aspettando "l'attacco del nemico".
"Buongiorno" dissi quasi a bassa voce.
" la vedo tesa ma non si preoccupi. Le ruberò solo pochi minuti per farle una comunicazione. Non volevo lo venisse a sapere da terzi, bensì avevo piacere a occuparmene io aggiungendo alcune raccomandazioni" e mise le mani chiuse in pugno appoggiando i gomiti al tavolo.
Io spalancai gli occhi.
"Non so se sa che ieri Marinelli ha avuto una discussione con Dominoni. Non è stato solo una questione di permesso per non venire oggi. Era già da un po' che lo controllavo. Non mi piaceva più il suo modo di fare soprattutto con i clienti. Sono loro che ci fanno mangiare e ci pagano lo stipendio quindi esigo che si porti loro il massimo rispetto. Clienti contenti, società contenta. Era diventato troppo arrogante. Non mi piaceva come faceva. Gli ho concesso il giorno di permesso ma ho anche deciso che della Comodor te ne occuperai tu. Sei una persona valida e vai sempre dritta all'obiettivo. Ti fai in quattro per questa società ed ho deciso di premiarti e oggi verso le 15 incontrerai l'amministratore delegato della Comodor così lo conoscerai e farai in modo di accontentarli e soddisfare le loro esigenze. Sai bene quanto sia importante questo cliente e dovrai riuscire a chiudere il rinnovo del contratto che scadrà tra qualche mese con loro. Mi fido di te" mentre parlava mi guardava negli occhi. Era serio. Lo aveva affidato a me e il mio cuore continuava a rullare come un tamburo dalla gioia.
"Non so cosa dire.." Arrossii.
"Non devi dire niente, voglio solo che man mano aggiorni Dora sugli sviluppi cosicché li riferirà a me. Se hai bisogno di qualcosa rivolgiti a lei. Buona giornata e congratulazioni" mi porse la mano e gliela strinsi alzandomi dalla sedia.
Arrivai alla porta scorrevole "ancora una cosa signora Dovico" mi voltai " non dica niente a nessuno ancora per il momento. Avremo tempo e modo per farlo. Per il momento massima discrezione per cortesia" aggiunse. Annuii semplicemente.
"Grazie " e uscii.
Chiusa la porta alle mie spalle mi accovacciai per terra. Ancora non ci credevo: finalmente la ruota iniziava a girare anche per me. Finalmente avevo qualcosa da gioire anch'io? Non mi sembrava vero.
Tornai nel mio ufficio e guardai il monitor del mio computer. Non sapevo cosa dovevo fare, non ricordavo più nulla. Continuavano a ritornare nella mia mente le parole del boss e cercai di sistemare i pensieri. Un semplice sorriso da ebete mi si stampò sul viso e pensai che non era facile nascondere la gioia che provavo in quel momento.
"Vuoi un caffè?" Mi chiese Lisa che era passata a prendere delle carte dalla mia collega. " dove sei stata fino adesso? Tutto bene? È' successo qualcosa a Daniele?" Incalzò con le domande.
"Si si tutto bene. Prendo dopo un caffè alla macchinetta grazie, devo finire questa pratica" inventai una scusa.
"Ok" mi rispose pensierosa: probabilmente la mia risposta non l'aveva ne' convinta ne' soddisfatta e se ne andò.
Arrivò ora di pranzo e dopo aver controllato Daniele dalla vetrata e assicuratami che era tranquillo e stava dormendo, uscii a fare due passi per cercare di pranzare ma ero così nervosa per l'incontro che ci sarebbe stato a breve col super cliente, che decisi di prendere un gelato e sedermi su una panchina di fronte al mare per raccogliere tutte le vibrazioni positive della spiaggia.
"Ciao. Ci rivediamo. " una voce poco familiare sentii alle mie spalle.
Era ancora il ragazzo di stamattina, occhiali da sole camicia arrotolata e giacca in mano. Il sole alle sue spalle faceva brillare i suoi capelli biondi e i suoi lineamenti pressoché perfetti.
"Posso?" Indicandomi la panchina.
"Si si .. Certo" balbettai. Non capivo perché per la seconda volta nella giornata incontrandolo perdevo le mie sicurezze e la mia corazza che avevo costruito col tempo scricchiolasse ogni volta che cercavo di parlare con lui.
Non disse più nulla e si sedette vicino a me.
Una folata di vento mi fece odorare il suo profumo.
Fissavamo il mare di fronte a noi, ma io con la coda dell'occhio cercavo di capire cosa volesse fare lì vicino a me.. Chi era? Cosa voleva?
"Anch'io sai ho una bambina, si chiama Chiara" iniziò sempre guardando dritto davanti a se'. " La mia ex moglie ci ha lasciati due anni fa.."
Alzai il sopracciglio. Non avevo capito se fosse scappata con il postino oppure fosse morta, ma non sapevo se fosse una domanda pertinente da fare in quel momento e quindi lo osservai per capire il senso della sua frase.
Si voltò verso di me e per un secondo mi guardò. Credo io fossi con un bel punto di domanda stampato sul viso perché subito aggiunse " non è morta eh? Ha semplicemente deciso che il mio socio fosse più importante di me. Povera ingenua.. Ha lasciato la cosa più preziosa al mondo come può essere una figlia, scegliendo i soldi" e tornò a guardare il mare.
"Capisco.." Non aggiunsi altro. La mia corazza aveva smesso di scricchiolare e la mia paura di parlare di me alle persone, soprattutto agli sconosciuti, ritornò a essere salda.
Non potevo certo raccontare la mia storia. Non potevo sbilanciarmi.
" non so perché te ne parlo, mi è uscito così! Scusami" abbassò lo sguardo e per un attimo capii cosa stava provando: quel senso di insicurezza, quel bisogno di parlare e di sfogarsi col pensiero che uscendo le parole dalla bocca potessero far sentire meno il peso nel cuore, schiacciandolo e opprimendolo di meno.
"Non ti scusare.. Perché so quello che provi" ero io ad aver parlato? Mi morsicai la lingua perché non sapevo quello che stavo facendo. Eppure quegli occhi così tristi li rivedevo ogni giorno davanti allo specchio. Sembravano i miei. Sembravo in quel momento da sola nella mia camera da letto a parlarmi per sfogarmi. " non so come faccia una madre ad abbandonare una figlia. Se non ci fossero loro, le persone non si sentiranno mai complete come guardando un figlio, annusando la sua pelle e stringendolo tra le braccia"
"Eppure succede." Alzò gli occhi e guardò il cielo.
D'un tratto squillò il suo cellulare " scusami" e si alzò e si allontanò per rispondere.
Sembrava una telefonata importante e lui iniziò a gesticolare e camminare avanti e indietro nervosamente. Riagganciò e si avvicinò alla mia panchina " mi dispiace ma devo andare. Grazie per la chiacchierata o scusa per lo sfogo. Decidi tu" e mi sorrise.
"Figurati. Solitamente sarei anche più di compagnia io.. Ma.. Vedi.." Arrossii e abbassai lo sguardo.    
Sorrise e mi porse la mano. "Non so come ti chiami però" e sorrise di nuovo.
"Paola"
"Grazie Paola!" E mi strinse la mano appoggiando la sinistra sopra.
Aveva due mani vellutate e calde che mi riscaldarono il cuore per un istante.
" io sono Fabio.. Spero di incontrarti ancora per caso.." Non aggiunse altro. Mi sorrise e se ne andò attraversando la strada e io non smisi di guardarlo andare via fino a quando non girò l'angolo e non fu più possibile seguirlo con gli occhi.
L'incontro con l'amministratore delegato della Comodor si svolse senza intoppi. Era un uomo sulla sessantina, moro occhi scuri occhialini dai lineamenti simpatici, bassino e molto magro.
"Alla prossima riunione tra una settimana vorremmo vedere una presentazione esplosiva, mi raccomando" e mi salutò.

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