Capitolo 1

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L'emarginazione e la solitudine erano sempre stati al mio fianco come fedeli compagni, e inizio a pensare che fossero scritti nel mio DNA.

Avevo consultato la professoressa di scienze, la signorina Schmidt, per documentarmi al riguardo, e mi aveva detto che una cosa simile era impossibile, ma avrebbe approfondito il tema insolito.

Tutt'oggi sospetto che mi avesse detto ciò per far sì che togliessi il disturbo e non la inondassi con le mie domande, come al mio solito.

La scuola tedesca era un ambiente rigido e austero in cui la disciplina, l'educazione e l'attenzione erano al primo posto, e, se si andava contro tali dogmi, i docenti non esitavano ad inculcarceli con le maniere forti.
Ed è proprio per questo che le mie mani erano sempre rosse a causa delle consuete bacchettate.

Non fraintendetemi, la scuola mi era sempre piaciuta, e forse ciò è stato uno dei motivi della mia emarginazione, ma parlare talvolta si mostrava più forte di me, così gli insegnanti mi punivano.
Una, due, tre, quattro e infinite volte mi ripetevano quanto fossi indisciplinato, squattrinato e troppo distratto per una scuola simile, nonostante i miei voti dimostrassero il contrario.

Solo la professoressa Drucker si dimostrava più permissiva, forse per un senso di fratellanza, in quanto avevamo la stessa nazionalità, o forse semplicemente perché provava a mettersi nei nostri panni ed era obiettiva.

Pensando a ciò continuo a stringere la giacca.
Ormai il calore momentaneo dovuto allo sforzo precedentemente compiuto ha lasciato spazio alla brezza gelida della notte, a quel venticello che tenta di portarmi via, nei meandri più profondi del Reich.

Sentendo uno scricchiolìo di foglie provocato da un passo strascicato tento di farmi ancora più piccolo, e, vista la mia costituzione, l'impresa non si rivela tanto ardua.

Il soggetto continua a muoversi, e, dato l'orario e il clima, deve essere proprio un tipo coraggioso.
Spero solo che non si tratti di qualche soldato, o la corsa si rivelerebbe vana.

Tendo bene le orecchie come un segugio, alla ricerca di un qualsiasi suono che mi faccia capire la posizione dell'estraneo, e, non sentendo più niente, mi rimetto a sedere.

Sobbalzo quando vedo un volto rugoso che mi scruta con curiosità dall'alto.
«Non mi arresti, me ne vado subito!» urlo disperato, alzando le mani in aria in segno di resa.
Ma l'uomo non sembra capire, e pare alquanto sorpreso.
«Giovanotto, non voglio farti del male» mi risponde l'anziano signore dai capelli argentati e gli occhiali da vista.
«Puoi fidarti...» aggiunge, vedendomi titubante.

«Cosa ci fai qui alle due di notte?» chiede poi, insistente.
Solo ora mi soffermo a pensare alle sue parole.
Le due di notte? Caspita, ho realmente perso la cognizione del tempo!

Scrollo le spalle, non sapendo cosa rispondergli.
In questi ultimi mesi sono diventato più previdente che mai, e mentre nel passato, nonostante i continui avvisi dei miei genitori, fossi propenso ad accettare qualsiasi caramella da parte degli sconosciuti, ora ho paura anche semplicemente ad emettere un suono con le mie corde vocali.

«Io stavo cercando il mio cane, l'hai visto?» continua.
L'insistenza è sempre stata uno degli aspetti dell'uomo che mi infastidiscono maggiormente.
Lo guardo titubante, giocherellando con qualche filo del cappotto.
«È grande più o meno così e ha una grande macchia nera sul muso. Si riconosce facilmente proprio per questa caratteristica. Ti dice niente?»

Descrive dettagliatamente il suo cane, e a giudicare dalle misure, ad occhio e croce dovrebbe essere l'animale che qualche minuto fa (o forse ora) mi ha attaccato.

Dopo averci riflettuto un po' su annuisco timidamente, distogliendo lo sguardo dalla cicatrice che occupa metà del suo zigomo destro.

«Sapresti dirmi in che direzione è andato?»
Scuoto la testa, ricordando che durante l'aggressione cercava di bere dalla scodella che gli avevo rubato davanti una grande rimessa.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora