1.2 - Disfonia

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«Mel!» esclamò, togliendomi la torta dalle mani e dandola alla nonna che era dietro di lui. Mi strinse in un abbraccio, dal quale mi arrivò così tanto calore che compresi all'istante di essergli mancata in quelle settimane lontani.

Non appena si staccò dalla mia presa, si chinò verso Celeste e la sollevò da terra. «Come sta la nipotina preferita del nonno?»

«È anche l'unica che hai, papà», dissi, con quel tono di voce che sottolineava l'ovvio e che tutti odiavano. Sghignazzai nell'istante seguente per far capire come stessi scherzando e avanzai all'interno della casa, mentre la nonna richiudeva la porta alle mie spalle.

Mi tolsi il cardigan che indossavo e lo tenni tra le mani anche quando cominciai a salutare tutti i parenti che si erano alzati dalle loro sedute per venirmi incontro: gli zii Sara e Antonio, nonna Giovanna e la figlia del cugino di papà, Marta.

Diedi due baci sulla guancia a tutti quanti, per poi incamminarmi verso la camera degli ospiti così da appoggiare sul letto il maglioncino e la borsa. Nonostante mi stessi allontanando dalla sala da pranzo, sentii comunque gli schiamazzi di Celeste; sembrava stesse correndo per tutta la stanza, come se mio padre la stesse inseguendo per acciuffarla.

Risi, senza preoccuparmi di farlo in maniera silenziosa, e percorsi quel corridoio con l'eco che, pian piano, si affievoliva.

Non appena il silenzio cominciò a fare da padrone e le urla divennero solo un lontano brusio, mi venne naturale sollevare lo sguardo da terra e osservare attorno. Anche se non era trascorso molto tempo dalla mia ultima visita, volevo constatare se qualcosa fosse cambiato.

Purtroppo, però, quella casa risultava ancora spoglia e il pensiero che non rispecchiasse affatto papà tornò, come sempre, a farsi strada nella mia mente. Non c'erano foto, quadri, libri, agende, o qualunque altro oggetto che potesse, bene o male, ricordarmelo. Anche i pezzi di mobilio erano tutti tinti di bianco, così impersonali e asettici, al punto che un brivido di freddo mi corse lungo la schiena.

Ormai viveva lì da poco meno di un anno e ancora non aveva comprato nulla per decorarla. Sembrava come se non la sentisse casa sua e non potei non dargli torto, perché la sua dimora era quella che era stato costretto ad abbandonare tre anni prima e nella quale non era mai tornato.

Ricordavo ancora quella notte di maggio in cui ricevetti il messaggio nel quale mi diceva che sarebbe rimasto dai suoi genitori e che dovevo solamente stare tranquilla. Mi promise che avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue mani per tornare a stare da noi, ma i giorni erano diventati mesi, i mesi anni e lui non era mai rincasato.

Aveva vissuto dai nonni per tutto quel tempo, fino a quando non era stato in grado di stabilizzarsi sia a livello lavorativo che economico. Per mesi aveva svolto qualche piccolo impiego un po' in ogni dove, ma nessuno sembrava intenzionato ad assumerlo a tempo indeterminato.

La fortuna volle che un amico riuscì a trovargli un posto in un'azienda che si occupava della manutenzione delle caldaie. Era stato il suo lavoro per anni e farlo nuovamente non fu affatto difficile; anzi, sembrava pure che ciò lo appagasse, come se fosse tornato a occuparsi di qualcosa che amava.

In quel momento della sua vita, aveva ripreso a sorridere e non potei non gioire di tutto ciò, perché era un uomo buono e non si meritava che quelle vicende minassero la sua gioia e lo portassero a soffrire. Una lacrima minacciò di uscirmi, quando riflettei su com'era vederlo sempre di cattivo umore e con disegnata sul volto l'espressione di chi credeva che non sarebbe riuscito ad andare avanti.

Mi si spezzava il cuore al pensiero che papà si addossasse le colpe di quell'amore finito male, del lavoro perso, nonché degli errori e delle scelte sbagliate che sua figlia aveva fatto in passato. Feci scorrere il dorso della mia mano sul volto, così da asciugarlo e guardai in alto, respirando profondamente.

Sonata per chi viene al mondoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora