1.3 - Disfonia

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«Melissa.»

Sollevai lo sguardo non appena sentii pronunciare il mio nome e una ciocca di capelli mi cadde davanti al viso. La scostai, mettendola dietro all'orecchio, così che non sfuggisse di nuovo e fissai Marta, per chiederle cosa volesse.

«Quest'anno Celeste compirà tre anni, giusto?»

«Li ha fatti a febbraio», risposi, osservando come stesse maneggiando il cavatappi di una delle bottiglie di vino. Sembrava nervosa nel portare avanti quella conversazione e non riuscivo a comprenderne il motivo; l'unica cosa di cui mi rendevo conto era che la sua agitazione era fonte d'ansia per me.

Allungai la mano sotto il tavolo e cercai quella di Celeste, così da stringerla nella mia presa e tranquillizzarmi.

«La manderai alla scuola materna, dunque?» proseguì e tirai un sospiro di sollievo nel sentirmi rivolgere quella domanda. Mi rilassai e mi maledessi mentalmente per tutte quelle inutili preoccupazioni che ero solita farmi, anche quando non ce n'era alcun bisogno.

«Sì, abbiamo già fatto l'iscrizione.»

«Sarà un bel momento per lei», iniziò, facendo una pausa per mangiare un pistacchio che aveva davanti. «Conoscerà nuovi bambini e comincerà a staccarsi da te.»

Annuii e aggiunsi: «È un passo necessario. Sono sicura che se la caverà alla grande». Dopo aver pronunciato quelle parole, guardai la mia bambina e le passai una mano sul volto per accarezzarla, convinta di ciò che avevo affermato.

«Non ne dubito, anche perché è proprio dolcissima e sono certa che andrà d'accordo con tutti», sostenne, rivolgendole un tenero sorriso. Celeste, in risposta, mise in mostra i suoi dentini da latte e dalla sua bocca sfuggì un risolino.

«Speriamo che sarai in grado di lasciarla andare.» Si voltò nell'istante seguente, così da non darmi neanche il tempo per replicare. La interpretai come una mancanza di rispetto nei miei confronti e non capii se quella fosse una critica o se avesse solo sbagliato a esprimersi.

Mentre quella confusione continuava a ronzare nella mia testa, non mi accorsi neanche di come tutto intorno a me si stesse muovendo: c'era agitazione, frenesia e lo realizzai solo quando delle fiammelle comparvero davanti ai miei occhi.

La nonna aveva appena posato la torta sul tavolo e scossi la testa per scacciare quei pensieri, che non dovevano sfiorarmi in quel momento.

Vidi papà sollevare Celeste dalla sedia e farla accomodare sopra le sue gambe. Si avvicinò al tavolo, in modo tale che la bambina potesse rimanere salda e lo sentii sussurrarle all'orecchio: «Pronta a soffiare più forte che mai?»

Celeste annuì e si mosse euforica, come se ondate di gioia stessero invadendo a intermittenza il suo corpo. Tutte le voci nella sala intonarono "Tanti auguri a te", con note non azzeccate a ogni strofa e voci che non seguivano il ritmo, procedendo un po' a caso. Era probabilmente la peggior canzone d'auguri che avessi mai sentito in tutta la mia vita, ma il sorriso sul volto di mio padre mi faceva intendere che era ciò che di più bello le sue orecchie stessero udendo e che non avrebbe desiderato di meglio.

«Esprimi un desiderio, papà!»

Sollevò lo sguardo per rifletterci un attimo, dopodiché diede un colpetto a Celeste e tutti e due soffiarono con forza, così da spegnere le cinquantun candeline lì presenti. Si voltò leggermente nella mia direzione e, sorridendomi, mimò con le labbra: «Ti voglio bene».

«Anche io», dissi ad alta voce. Gli presi la mano e gliela strinsi forte, sperando che con quel gesto comprendesse quanto fossi sincera, perché volevo così tanto bene a mio padre, da rammaricarmi per non averglielo mai dimostrato a sufficienza.

Sonata per chi viene al mondoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora