I.

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3 ottobre 1987

Conobbi Jack in un umido pomeriggio di ottobre. Il cielo era uggioso, coperto da un fitto tappeto di nuvole grigie che sembravano voler chiudere il mondo dentro una soffice cappa. Faceva caldo, l'aria era pesante... Lo rammento perché fu questo che mi colpì di Roma: il clima. Era così diverso da quello di casa, quasi a rimarcare il fatto che io non appartenessi a quel luogo, che fossi un'estranea.
A ripensarci, quel pomeriggio non conobbi Jack; al contrario, lo vidi per la prima volta. Ero completamente impreparata all'evento... giacevo sulla spalla di mio padre con un occhio chiuso e l'altro aperto quel tanto che bastava per intravedere il suo volto paffutello ed i suoi occhi color verde smeraldo. All'epoca non lo sapevo, ma non avrei mai più dimenticato quest'immagine.
Quando scoprii che un ascensore non c'era nel palazzo, fui molto contenta di aver finto di essere addormentata. Mio padre lo fu un po' meno, dato che mi dovette portare in braccio, gradino dopo gradino, fin su, al quinto piano, dove c'era la nostra nuova casa. Entrati, poggiò a terra la valigia che teneva in mano, mi adagiò su un grande divano ed uscì. Prima di alzarmi attesi qualche secondo immobile, come per paura che lui potesse tornare indietro e scoprire che ero sveglia e che lo avevo imbrogliato.
La stanza in cui mi trovavo era grande, molto grande, con un soffitto irregolare e percorso da lunghe travi di legno scure come i listelli del parquet. Dentro c'erano soltanto un imponente camino, che presto sarebbe diventato fonte di inesauribile piacere per me, ed una grande finestra da cui entrava un fascio di luce bluastra che rifletteva sulla antistante parete bianca. Nient'altro. La vuotezza della stanza mi fece provare una strana sensazione, che cominciò con una morsa all'altezza della bocca dello stomaco. Mio padre ed io avevamo voltato pagina... e come era la nuova pagina? Vuota. Vuota come la stanza in cui mi trovavo. Vuota come Roma, che mi aveva accolto con quel cielo grigio. Vuota.
Stavo per addentrarmi in altre stanze, quando d'un tratto udii uno rumore metallico, di chiavi; non feci in tempo a gettarmi nuovamente sul divano che la porta si aprì e sull'uscio comparve mio padre, carico di bagagli.
«Ti ho vista, furbetta!» disse ad alta voce e con fare scherzoso. «Aiutami a sistemare, su!»




12 marzo 1996

Jack ed io saltammo scuola, quel giorno. Avevamo entrambi quattordici anni. Andammo al mare, a Fregene, con il suo motorino, un cinquantino color verde militare a cui avevamo dato il nome di Pedro. Quella fu la prima di tante volte in cui avremmo saltato scuola senza dirlo ai nostri genitori. E quando dico tante, intendo tante. 
L'idea era stata mia. Quel giorno la perfida professoressa di matematica mi avrebbe interrogato ed io non avevo studiato, perché il giorno prima Jack mi aveva prestato un cd dei Radiohead ed io preferito ascoltarlo ininterrottamente piuttosto che studiare.
Dapprima Jack non aveva intenzione di seguirmi; disse, serioso: «Se ci sgamassero – ed è molto probabile che ciò avvenga – saremmo sospesi ed i nostri genitori ci ucciderebbero».
«Codardo!», gli risposi io. «La vita non è fatta di "se"...»
Sentita la mia ultima affermazione, tacque. Ci trovavamo nel cortile del nostro comprensorio, seduti sull'unica panchina che vi era. Erano circa le otto di sera e il suono dello scrosciare dell'acqua della fontana rimbombava tra le alte mura color ocra. Jack rimase in silenzio per qualche istante, totalmente assorto nei suoi pensieri o, quasi sicuramente, nei calcoli delle probabilità che potessero scoprire quello che sarebbe stato, per allora, il nostro segreto più oscuro. Poi, alzò lo sguardo verso di me e aggiunse: «La vita non è fatta neppure di "ma", se è per questo.»
«Cosa significa?», gli chiesi io con un ghigno, certa di quale sarebbe stata la sua risposta.
«È deciso: domani salteremo scuola. Per non farci beccare, stasera parcheggerò Pedro a un paio di isolati da qui, sulla strada verso scuola. Dirò ai miei che è rotto e che il meccanico lo controllerà in mattinata. Domani, quindi, ci faremo accompagnare da mia madre a scuola, fingeremo di entrare e poi, non appena lei si sarà allontanata, correremo a prendere Pedro. Le diremo che all'uscita non ci sarà bisogno di un passaggio, perché tanto Pedro sarà pronto e potremo andarlo a prendere direttamente dal meccanico.»
«Perfetto», dissi, abituata ormai alla sua mania di programmare qualunque evento, una delle sue mille stranezze.
«E dove andremo?»
«A questo ci penso io. Lo scoprirai domani.»

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