28 dicembre 2007
Quando arrivai da Michelangelo, Jack era già lì. Il suo volto era pallido, la barba incolta, sotto i suoi occhi c'erano due grandi fosse viola. Aveva bevuto tre caffè.
Mi sedetti di fronte a lui e prima ancora che potesse aprire bocca esordii dicendo: «Va' da lei».
«Fammi spiegare» ribatté lui.
«Non c'è bisogno di alcuna spiegazione. Potevamo anche non vederci.»
«Non fare così, Sofia, ti prego.»
«Non sto facendo niente.»
«Sì, invece. Ti stai chiudendo a riccio, stai mettendo su la tua solita barriera difensiva, diventi fredda.»
«Non posso farne a meno. Di' quello che vuoi dire e finiamola così, forza.»
«Gaia ha un tumore al seno... me lo ha detto l'altro ieri, poco prima che le parlassi...»
«Ok, ho capito» lo interruppi. «Non devi aggiungere altro.»
«Sofia» sospirò lui, «ha bisogno di me, non posso lasciarla in questo momento delicato.»
Provai a dire qualcosa, ma non ci riuscii. La gola mi bruciava e il resto del corpo formicolava. Se avessi parlato subito, sarei scoppiata a piangere. E per nessun motivo al mondo avrei voluto farmi vedere piangere. Non da lui.
«C'è un bravissimo medico a Milano che i miei conoscono. Mia madre lo ha chiamato ed è riuscita ad ottenere in via eccezionale che la visiti domani alle due. Alle otto ho il treno.»
Restai ancora in silenzio.
«Finché sta male devo starle vicino, capisci? È la cosa giusta da fare... non posso lasciarla ora. E non posso neppure tradirla.» Allungò la mano sul tavolo per accarezzarmi, ma non glielo permisi. Mi scostai. «Restiamo amici.»
«È la cosa giusta da fare e tu fai sempre la cosa giusta. Però non potremo mai più essere amici» feci io, cercando disperatamente di non far trapelare le mie emozioni. «Addio, Jack.»
Mi alzai e andai via. Lui cercò di dire qualcosa, ma non trovò cosa. D'altronde non c'era più niente che ci dovessimo dire.
Non mi seguì e di questo fui grata perché non appena uscita dal Caffè mi nascosi dietro la prima colonna del portico che trovai e mi lasciai andare. Piansi per ore, seduta per terra e con la schiena poggiata sul marmo. La gente mi guardava, ma nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi.
Un pianto isterico, ecco cosa fu. Di delusione, ma soprattutto di dolore e rabbia. Mi mancava il respiro e la gola e gli occhi mi bruciavano più che mai. Il mondo attorno a me girava e girava ed io non avevo la forza di alzarmi.
Nella mia testa si susseguivano le immagini dei giorni precedenti e si mischiavano a quelle di quel giorno maledetto. Le prime a colori, le seconde in bianco e nero. Anzi, più in nero che in bianco.
Non ero arrabbiata con Gaia ma allo stesso tempo la odiavo, perché era stata lei a far infrangere il sogno di un futuro con Jack. Un sogno che sin dal 3 ottobre 1987 era stato appeso ad un filo sottilissimo ed invisibile. Un filo che mai e poi mai avrebbe potuto reggere il peso di una relazione come la nostra. Un filo che forse non era mai nemmeno esistito oppure si era spezzato subito.
Nelle mie orecchie risuonava la voce di Jack: «non posso lasciarla in questo momento delicato» e ancora «ha bisogno di me». Anche io avevo bisogno di lui, un bisogno disperato che con i mesi a venire, fra le pasticche di ecstasy e i digiuni, non fece che aumentare in modo esponenziale e finì col divorarmi.Quando finalmente rimasi a corto di lacrime, tornai a casa, mi feci una doccia e giacqui bagnata nel letto con un forte mal di testa.
Restai a casa anche il giorno dopo e quello dopo ancora; passò Capodanno, poi un mese e alla fine uscire da quel nido divenne la mia paura più grande. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo un mondo lontano che continuava ad esistere senza la mia presenza ed io non riuscivo a farne parte.
Mio padre, dopo che per due domeniche avevo inventato scuse per non andare a pranzo da lui, venne a trovarmi preoccupato e rimase sconcertato nel vedermi così debole e magra. Mi chiese cosa fosse successo ed io scelsi di dirgli tutto su quanto era avvenuto con Jack. A quel punto mi strinse a sé e mi disse che avrei trovato la forza di riprendermi, perché le ferite d'amore finiscono col rimarginarsi. Non aveva capito però l'entità della mia sofferenza e per questo mi lasciò stare tranquilla.
Passarono altri due mesi ed io rimasi barricata in casa. Papà mi portava la spesa ogni sabato mattina e mi raccontava di cosa accadesse nel mondo vero. Di tanto in tanto mi lasciava un giornale o qualche rivista sul tavolino basso del soggiorno, ma io li buttavo non appena usciva. Un giorno di aprile mi domandò se volessi vedere uno psicologo, ma io risposi che non ce n'era bisogno, che oramai stavo meglio e mentii dicendogli che un pomeriggio ero anche uscita. In realtà non facevo altro che dormire tutto il giorno. A Jack - e questo era vero - non pensavo quasi più, ma nonostante questo continuavo a sentire il peso della sua assenza, della vuotezza della mia vita che mai e poi mai avrei immaginato da ragazzina che sarebbe stata così.
Il cibo che mio padre mi comprava non faceva che andare a male e mi toccava buttarlo. In cucina c'erano di media tre sacchi della spazzatura che poi il sabato venivano presi da lui e portati via.
Il mio corpo, visto allo specchio, a volte mi faceva schifo e pena, a volte mi sembrava un fantasma, una proiezione di qualcosa che non sentivo neanche più di avere.
Quando terminai la mia scorta di ecstasy fu un problema. Scrissi a Lea, le cui chiamate e i cui messaggi avevo a lungo ignorato, e le chiesi di portarmene un po'. Il pomeriggio che venne a trovarmi rimase inorridita nel vedermi in quello stato e mi ricoprì di insulti. Per quanto taglienti fossero, non piansi perché dal 28 dicembre avevo smesso di farlo. Forse non mi toccarono neppure tanto, a dire il vero: non c'era niente che potesse dirmi che già non sapessi - anzi, attraverso i miei occhi facevo ancora più schifo di quanto non fosse attraverso i suoi.
«Non puoi continuare così» mi urlò contro «sei una tossicodipendente, tutta ossa e indecente. Come puoi esserti ridotta in questo modo? Basta, non ti permetterò di farti altro male. Ora basta.»
Ora basta, sì. Lo avevo pensato innumerevoli volte ma nei miei pensieri la soluzione era farla finita.
Contattarla si rivelò essere un errore fatale, perché chiamò Jack e qualche ora più tardi lo trovai a casa mia. Quando vidi la sua immagine sfocata attraverso lo spioncino della porta il mio cuore si fermò.
«So che sei lì dentro, apri!» fece lui dispoticamente. «Sofia, apri o sfondo la porta!»
Gli aprii e non appena mi vide i suoi occhi si riempirono di lacrime. D'un tratto il mio corpo cedette e caddi a terra, piangendo di nuovo dopo tutto quel tempo. Lui accorse e si adagiò accanto a me, mi prese fra le sue braccia tenendomi la testa stretta sul suo petto e avvolgendomi metà volto con la sua grande mano. Piangendo, mormorava con voce sommessa: «Come hai potuto farti questo? Come...?»
Restammo per terra a lungo immobili in quella posizione, quindi mi disse che aveva intenzione di portarmi in ospedale ed io protestai dimenandomi e gridando, così mi fece promettere che avrei mangiato e cucinò per me qualcosa con quel poco che si trovava in casa e non era ancora scaduto. Mangiai controvoglia con l'unico scopo che non mi portasse a forza in ospedale. Lui mi fissò durante l'intero pasto per assicurarsi che non lo gettassi da nessuna parte. Poi mi invitò a farmi una doccia, ma ero talmente tanto debole da non riuscire a stare in piedi in equilibrio nella doccia, allora mi lavò lui e fu umiliante mostrargli e permettere che toccasse il mio corpo. Mi asciugò anche i capelli e mi adagiò a letto. Avevo persino la febbre. Mi rimboccò le coperte e lasciò che dormissi.
Dormì da me, sul divano. Al mattino mi fece trovare la dispensa piena di cibo e mi preparò la colazione; di nuovo, mi fissò mentre mangiavo. Il mio stomaco a mala pena riusciva a credere che finalmente potesse riempirsi. Non appena ebbi finito, Jack mi chiese dove fossero le pasticche e io mi sentii morire dentro non appena realizzai che Lea gli aveva detto anche di quelle.
«So che le hai. Lea mi ha detto di avertele portate e che quando ha provato a sottrartele l'hai graffiata. Dove le hai nascoste?» Silenzio. «Sofi, ti prego. Voglio aiutarti, mi uccide vederti così. Dove sono?»
«Gaia come sta?»
«Che c'entra Gaia? Sofia, ti prego, dove sono?» Ancora silenzio. «Sono restato con Gaia perché aveva bisogno di me ed io non avevo la minima idea di cosa stessi passando tu. Se solo lo avessi saputo», fece con la voce spezzata, «... Se solo lo avessi saputo, non mi sarei mai allontanato. Che stiamo insieme o no, tu sei la persona più importante della mia vita, dico davvero. Lo sei da sempre, dal primo giorno in cui ti ho vista. Sapere che stai così mi uccide sul serio. Voglio aiutarti, starti vicino, però tu mi devi permettere di farlo» continuò. «Dove sono le pasticche?»
«Nascoste dietro la mascherina dello sciacquone» risposi. E mentre lui andava a prenderle, io mi soffermai a riflettere. Un tempo avrei dato qualunque cosa per sentirgli dire ciò che mi aveva appena detto, eppure in quel momento non riuscivo a sentire niente. Avrebbe potuto dirmi "ti odio" o "vuoi sposarmi?" e avrei continuato a non provare nulla.
Le gettò nel water.

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I nostri momenti (Completo)
Teen FictionLa vita è un insieme infinito di momenti posti in ordine sparso. E questa è la storia di Jack e Sofi. © 2017 Virginia della Torre. Tutti i diritti riservati.