Uno

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Entrai nel cortile della scuola con le cuffiette nelle orecchie, testa bassa, come d'abitudine. I brividi mi incespicavano la pelle e la mia felpa non bastava ad opprimere il freddo che da giorni mi stringeva in un abbraccio senza pietá. Il cielo era colorato di un grigio tetro e il sole riusciva leggermente e con fatica a penetrare la barriera che le nuvole creavano, illuminando lievemente alcuni fortunati passanti. Camminando schiacciavo le foglie colorate e, anche se per via della musica non potevo sentirne il rumore, lo immaginavo. Così sceglievo le foglie più scure, quelle più secche, che con poco si sgretolavano e volavano via, portate dal vento. Varcai la soglia e salutai qualcuno senza rendermi conto di chi fosse; poi scesi le scale di corsa. Legai i capelli mentre con passo svelto mi dirigevo verso la palestra, imprecando contro la professoressa che sentivo urlare dal corridoio. Andai letteralmente a sbattere contro Paola senza nemmeno accorgermene. Lei mi guardò negli occhi e io non riuscii a sostenere il suo sguardo.

-Che hai?
Pensai che quello non era in posto giusto per parlarne: decine di occhi erano puntati su di noi e un numero ancor maggiore si aggirava per l'atrio, in cerca di qualche nuova notizia da poter bisbigliare nei corridoi. Succedeva sempre così e ormai mi ero abituata: una sola persona scopriva anche solo una minima e nel giro di qualche ora parlavano di te come se fossi l'assassino più ricercato d'Europa. Mi gettai in terra e guardai la mia amica dal basso.
-Penso di essermi slogata la caviglia, non posso proprio fare ginnastica!
Scoppiammo in una sonora risata che per un secondo mi distrasse da tutto e da tutti. Paola mi porse una mano che afferrai subito, poi entrammo in spogliatoio zoppicando.
-Prof, ieri ad atletica siamo cadute e l'allenatore ha detto di non fare sforzi per un po'.
La professoressa ci guardò incredula, infine ci sorrise e ci lasciò tornare in classe. Ci fermammo in corridoio e prendemmo un tè alle macchinette. Definirlo era come paragonare il giardinetto della scuola con un parco fiorito: acqua marroncina e insapore rendeva decisamente meglio l'idea. Una volta entrate in classe sbattei la porta con forza e ci andammo a sedere negli ultimi banchi, vicini al termosifone.
-Tutto bene?
-Non proprio.
Un silenzio non troppo lungo seguì le nostre parole. Non era un silenzio di imbarazzo, ma anzi era piacevole. Spesso io e Paola non parlavamo e ci davamo tempo a vicenda per riflettere, pensare a cosa dire o chiedere. Poi, quando ci sembrava opportuno, una delle due ricominciava il discorso.
-Per via dei miei. Non sono mai contenti, si lamentano in continuazione. Ormai la cosa che si sente di più in casa è non stai studiando abbastanza. Non ce la faccio più, giuro.
Lei non rispose e lo apprezzai. Preferivo decisamente le persone che tacevano e ti lasciavano i tuoi spazi, piuttosto che quelle invadenti, logorroiche, che piuttosto di parlare e stare al centro dell'attenzione partorivano le idiozie più grandi. Forse era per questo che non amavo stare in mezzo alla gente, che preferivo i luoghi tranquilli a quelli affollati, che credevo fermamente che avere pochi amici, ma amici veri, fosse meglio di essere la ragazza più popolare della scuola ma senza nessuno realmente accanto. Le ore passarono svelte ed uscii più in fretta possibile. Guardai l'orologio e mi sedetti sul muretto del giardino, finchè non sentii qualcuno avvicinarsi a me. Riconobbi il suo profumo, era ormai inconfondibile, ma non mi girai, volevo aspettare lo facesse lui. Mi resi conto dopo un po' che non sarei riuscita a vincere il suo orgoglio, così mi voltai e lo fissai dritto nelle pupille. Rimanemmo per un po' fermi così, ognuno perso negli occhi dell'altro, navigando in un mare di chissá quante parole non dette, e avevo l'impressione che entrambi stessimo sorridendo come si sorride di fronte alle cose che ci fanno stare bene, ascoltando una canzone satura di ricordi, asciugandoci una lacrima che, testarda, scende sul viso facendo brillare le guance rosse. Stavamo cercando di capirci, di ascoltare i nostri infiniti silenzi, di riuscire ad oltrepassare quei muri impermeabili che avevamo costruito nel tempo, per evitare che qualcuno riuscisse a leggere i nostri pensieri, le nostre emozioni.
Sorridevamo, e avrei voluto che quel momento durasse per l'eternità. Tra di noi non c'era bisogno di parole, sapevamo comunicare con gli occhi, con gli sguardi, con i gesti. E così, naturalmente, ci trovammo abbracciati, avvinghiati uno all'altra nell'intento di scaldarci, di riempirci a vicenda. Chiusi gli occhi e iniziai a giocare con le dita sulla sua pancia, ridendo divertita ad ogni suo lamento. Assaporavo il profumo che indossava, quello dei suoi vestiti, delle sue mani, delle sue labbra e cercavo di memorizzarlo bene e di imprimermelo addosso, di tatuarmelo sulla pelle, come un segno indelebile invisibile a tutti, come il nostro segreto. E in un attimo fu sera e noi stavamo passeggiando vicini calpestando le foglie secche e colorate. Improvvisamente mi prese in braccio e continuó a camminare. Mi sentivo la sua bambina, ma non capivo se fosse una cosa positiva o meno, così mi appoggiai al suo petto e rimasi immobile qualche secondo.
-Dove andiamo?
-Sull'Isola che non c'è.
-Effettivamente, un po' a Peter Pan ci somigli!
-Tu a Wendy no, lei è molto più bella!
-Ah si? Fammi scendere allora!
Lui mi strinse più forte e soffocò una risatina. Io lo guardai con sguardo accusatorio e gli porsi nuovamente la domanda.
-A casa mia, cedette lui.
-Non posso, non ho detto niente ai miei, per domani ho chimica da studiare e se mi interroga...
-Ho ordinato il sushi.
Lo guardai e mi venne naturale stampargli un bacio sulla guancia, che in breve si colorò di un rosso vivo.
Un misero Grazie fu tutto ciò che riuscii a dire.

Sguardi d'argillaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora