Sette

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Le gocce di pioggia correvano sui tetti e poi cadevano veloci a terra, in una gara continua, infinita. Ticchettavano dolcemente, dando un ritmo alle nostre parole.

-Sei mancino.

-Come l'hai capito?

-Porti i braccialetti a destra, e lo fai da molto: ti hanno lasciato il segno dell'abbronzatura. Prima hai aperto la porta con la sinistra e usi la stessa mano per spostarti i capelli.

-Come ci riesci?

-Osservo. Le mani, il corpo, le abitudini. Osservo le persone.

-Anche tu sei mancina, allora.

-Sbagliato.

Sorrisi e lui fece lo stesso. Camminammo sotto la pioggia per un po', senza dire una parola, ascoltando ció che la cittá ci urlava, in silenzio. Pareti segnate da murales incredibili, parchi verdi abbandonati dai bambini dalla risata facile. Metropolitane sporche, treni affollati, persone colorate ma vestite di nero. Sorrisi su bocche rosse e asciutte, parole bisbigliate, canzoni stonate.

Solo allora mi resi conto di non conoscere ancora il suo nome.

Improvvisamente mi prese il polso e accelerò il passo.

-Seguimi.

Annuii.

La strada si fece a poco a poco più ripida e i negozi erano sempre più rari. Le persone che percorrevano il nostro stesso tratto erano davvero poche e per un attimo dubitai di lui, ma non dissi niente. Mi guardavo intorno in cerca di un aiuto, di un segnale, ma non riuscii a scovare nessuna informazione. Ero esausta quando arrivammo davanti ad una piccola casa, che pareva abbandonata.

-Eccoci.

Lo guardai, sperando che stesse scheranzo. Lui, come risposta, estrasse dalla tasca un paio di chiavi ed aprì la porta di legno scuro. L'interno era meglio di ció che mi aspettavo. Un buon profumo di fresco -di pulito, direbbe mia mamma- abbracciava tutte le stanze, arredate in maniera semplice ma di buon gusto. Pablo mi lasció il polso e mi strinse la mano, sfiorando con il pollice i polsi morbidi. Salimmo una ripida scala a chicciola e ci fermammo davanti ad una porta.

-Pronta?

-Direi proprio di sì.

Lui si scostò dall'ingresso e mi permise di guardare dentro: una fantastica vetrata offriva una veduta da togliere il respiro di tutta Madrid. Nella stanza, prorpio di fronte all'enorme finestra che occupava tutta una parete, un letto matrimoniale con un piumone che appariva caldo e accogliente. Tutt'intorno, appoggiati su mensole e scaffali, centinaia di libri. Libri colorati, profumati, vecchi, recenti, dalle copertine rovinate. Ne sfilai uno, lo aprii ad un pagina casuale e lessi ad alta voce.

-Soy libre. Cosa significa?

-Sono libera.

-Che strano. La parola libre assomiglia cossì tanto a libri.

Ci infilammo nel letto completamente vestiti e ci stringemmo uno all'altro. Parlavamo a bassa voce, come impauriti dal disturbare quella situazione così perfetta. Gli accarezzavo le mani, ruvide e grandi, lui mi guardava in viso, cercando ogni mio tratto particolare: un neo, gli zigomi troppo alti, le leggere rughe d'espressione.

-Sei la prima.

-Cosa scusa?

-Dicevo, sei la prima che porto qui non solo per fare sesso.

Il mio primo pensiero mi turbò.

-Hai cambiato le lenzuola, vero?

Lui rise.

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