I feel fine

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La musica si faceva sempre più ovattata ad ogni scalino che salivamo. Quando raggiungemmo finalmente il quarto pianerottolo, quello vicino all’uscita, non si sentiva più nulla dell’esibizione del cowboy sul palco. Peccato, mi piaceva davvero il modo in cui suonava.

Jay lasciò che le sue dita si intrecciassero nuovamente con le mie, proprio come mentre ballavamo, in una frazione di secondo. Mi incantai a guardare la mia mano stretta in quel modo da quella di un ragazzo: erano passanti tanti anni dall’ultima volta che mi era accaduta una cosa simile. E sorrisi, stupidamente, come un’adolescente alle prime armi con una cotta estiva. La musica del tipo che stava suonando nel locale mi piaceva, certo, ma mai quanto quelle sensazioni.

“Vogliamo sederci lì?” mi chiese, schiarendosi la voce e indicandomi la panchina di ferro battuto appoggiata sulla parete di fronte al locale.

Annuii leggermente, seguendolo. Quando arrivammo sul bordo della panchina, ci guardammo per qualche secondo, incerti entrambi sul da farsi. Il silenzio era assolutamente troppo imbarazzante, e mi sarei volentieri sotterrata, se solo avessi potuto. Ma poi, come per qualsiasi cosa quella sera, il ragazzo prese l’iniziativa e si sedette, gettandosi di peso sulla seduta. Allargò le braccia e le gambe, assumendo una posizione a stella marina decisamente poco elegante, ma sicuramente comoda. Lo fissai per qualche secondo: era ubriaco, molto ubriaco, e decisamente poco di classe in quelle condizioni ma, diamine, era comunque bellissimo. Mi sedetti al suo fianco, incrociando le gambe e voltandomi verso di lui. Ero decisamente poco femminile, in quel modo, ma sicuramente ci avrebbe fatto poco caso.

Nel lungo silenzio che seguì, iniziai a scorrere con lo sguardo tutte le frasi scritte sul muro su cui la panchina era appoggiata. I mattoncini rossi, un aspetto caratteristico di ogni città inglese ma di Liverpool in particolar modo, erano stati tinteggiati di un rosa acceso, vivace, allegro, vivo. Era il colore perfetto per una via giovane e variegata come quella. Il fatto che si trovasse proprio di fronte all’entrata del Cavern Club, poi, era un’ulteriore attrazione per tutti i turisti beatlesiani che si trovassero da quelle parti. I fan dei Beatles erano sempre alla ricerca di un modo per lasciare un segno in un qualsiasi posto che riguardasse il quartetto e, sicuramente, nulla era più allettante di un muro coloratissimo, senza segni del tempo e lontano dai controlli dei severi poliziotti inglesi. Su ogni singolo mattoncino, su ogni centimetro di stucco, in ogni minimo spazio disponibile, si potevano leggere i messaggi di amore e di gratitudine per i fan verso la propria band preferita. Alcuni messaggi erano lì da sempre, per quanto ricordassi, altri spuntavano magicamente giorno dopo giorno, rendendo quel semplice muro rosa una piccola opera d’arte. Con gli anni, nonostante non fossi una turista, anch’io avevo lasciato qualche frase, per amore, per ribellione, per ricordo.

E in quel momento, sovrastata dal silenzio fastidiosamente imbarazzante, avrei volentieri accettato un pennarello indelebile nero e avrei scritto qualcosa nel primo spazio vuoto che mi fosse capitato a tiro. Qualcosa di simbolico, qualcosa in grado di descrivere quel momento, una frase di una canzone dei Beatles che poteva adeguarsi a quella serata così stranamente piacevole. Arricciai il naso, indecisa sulla frase che avrei potuto scegliere se solo ne avessi avuto l’opportunità, e lasciai stare l’ardua scelta.

“Mi dispiace per Mic” pronunciò infine, rompendo quel silenzio e attirando la mia attenzione.

Lo guardai confusa, non cogliendo l’allusione della sua affermazione.

“Cioè… mi dispiace che abbia rimorchiato così in fretta la tua amica. Ora ti toccherà stare sola per il resto della serata. Mi dispiace, davvero” sbrodolò in un millesimo di secondo, guardandosi intorno confuso. Sembrava stesse perdendo tutta la sua sicurezza, lasciando spazio all’impaccio. E tutto ciò mi fece sorridere, di nuovo.

Please, please meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora