1. Incontro

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Non posso distogliere lo sguardo da queste luci. Brillano sopra la mia testa, sulla sommità della cabina dell'ascensore. Abbagliano, mi fanno male gli occhi.

Abbasso lo sguardo. Che stupida, credevi che un po' di dolore ti avrebbe distratta?

Torno ad alzare la testa, per sbaglio incrocio il mio riflesso nello specchio. Credevo di essere riuscita a coprire le occhiaie con il correttore, ma sotto questa luce artificiale scopro che nemmeno le mie mani esperte sono riuscite a camuffare la stanchezza. Almeno la piega è ancora in ordine, regge bene, i capelli violacei sono ancora lisci. Il cliente di stasera voleva che li acconciassi a questo modo, alcuni sono davvero fissati. Il trucco è ancora integro, le palpebre tinte di nero sopra gli occhi castani sono quasi inquietanti.

Che espressione terribile, non posso certo presentarmi a lui ridotta così.

Cerco di sorridere, ma il riflesso che lo specchio mi restituisce è solo un pallido ricordo di quella che sono, di quella che ero.

Gli angoli della bocca tornano al loro posto, rigidi e rivolti verso il basso.

Su queste labbra non sono più emersi sorrisi sinceri dal giorno in cui incontrai lui, dal giorno in cui mi strappò alla mia vita e al mio paese per trascinarmi qui.

Serro i pungi, le unghie graffiano la carne.

Lo odio, lo odio tanto che a volte non riesco a respirare. Spero di soffocare prima o poi, spero che il rancore mi strappi anche l'ultimo alito di vita. Almeno così non vedrò più quell'uomo e nessuno di quelli che mi costringe a incontrare.

L'ascensore si ferma con uno scossone, le porte metalliche si schiudono su un corridoio in penombra, tetro e silenzioso. Faccio un passo avanti, mi guardo attorno. Devo cercare la stanza centodieci, alla reception mi hanno detto di andare in fondo a sinistra.

Qualche debole passo, le gambe tremano mentre mi avvicino. A volte succede quando sto per incontrare un cliente, è come se il mio corpo si rifiutasse di proseguire, come se volesse impedirmi di soffrire ancora. Eppure io, testarda, mi oppongo a lui, lo costringo a muoversi verso la destinazione, come lui vuole.

Ecco la stanza, è nell'angolo più buio del corridoio. La porta è socchiusa, ma non ho il coraggio di entrare. Alzo il pugno chiuso, sto per bussare quando la porta si apre del tutto.

Due occhi azzurri, una cascata di capelli biondi e un sorriso tanto bello da togliere il fiato.

Il ragazzo mi sovrasta in tutta la sua altezza, il corpo massiccio semi nudo sembra pronto a schiacciarmi. Si rigira una sigaretta in bocca, una sottile scia di fumo si solleva dal mozzicone ardente, rischiara le ombre.

Sorride ancora, la allontana dalle labbra. «Ti stavo aspettando. Ti chiami Lily, vero?»

È il mio nome fittizio, quello lavorativo. «Sì, sono io. E lei deve essere Liam Johnson.»

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