9. Il poker della rinascita

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L'auto accosta dopo quasi un'ora di viaggio silenzioso e rallentato dal traffico della notte. Ronald ci apre le portiere, Slaver mi prende per un braccio mentre mi aiuta a scendere. Sollevo lo sguardo dinanzi al locale e l'insegna al neon mi riempie il campo visivo di una luce azzurra fluorescente. C'è scritto Starry Club e tutt'attorno brillano altre luci, come di stelle sul muro scuro quanto il cielo notturno. Dalla porta chiusa si percepisce l'ovattato brusio della musica, come se gorgogliasse dalle profondità della terra.

Mi accorgo solo ora che Slaver scambia due parole con Ronald che si allontana con la macchina. Rimasti soli, Slaver mi stringe a sé.

«Entriamo?»

Mi limito a un cenno d'assenso, la sua vicinanza mi ha stretto la gola e le viscere, lo detesto. Varchiamo la soglia dove un uomo grosso quanto una montagna gli fa un cenno, abbassando appena gli occhiali da sole. Scendiamo le scale e la musica si fa più martellante, poi una moltitudine di luci psichedeliche ci accoglie in una sala buia dove i corpi nudi di alcune ballerine si strusciano prima sui pali, poi fra le gambe dei clienti. Nel trambusto quasi assordante, Slaver sembra sapere perfettamente dove andare e mi trascina verso una porta dal lato opposto. Dietro di essa si nasconde un largo e lungo corridoio, pieno di altre porte. Per ognuna che superiamo percepisco suoni diversi, dalle risate, alle voci sguaiate; da gemiti di godimento a vere e proprie grida di piacere.

Un ragazzo mi passa accanto, fra le labbra stringe una canna, lascia dietro di sé una scia soffocante. Pochi passi dopo incrociamo due persone, un uomo e una donna, stretti contro il muro. Nascondono qualcosa, riesco a vederlo quando passiamo loro accanto, sembrava che lei abbia una siringa infilata nel braccio. Torno a puntare lo sguardo davanti a me fino a quando quello che sembra un buttafuori ci ferma, indicando una delle stanze più lontane dalle altre. Slaver gli sorride e mi fa cenno di proseguire. Ci fermiamo davanti a una porta chiusa, le dita di Slaver tremano leggermente quando sfiorano la maniglia, ma dubito che quel tremore sia dovuto alla paura. Spalanca il battente, quello che mi ritrovo davanti mi strappa un sussulto.

Aaron è seduto all'unico tavolo di quella piccola sala, tiene le gambe accavallate, le mani intrecciate sulle ginocchia. I capelli sono pettinati con cura, tirati sulla testa e confinati dietro le orecchie. Indossa un completo nero e una cravatta rosso scuro. È così bello da togliere il fiato, anche se lo sguardo sorpreso che ci rivolge rovina la sua perfezione.

«Lily?» È questa la prima parola che gli scivola dalle labbra mentre entriamo e ci sediamo di fronte a lui, sul divanetto opposto.

«Sei sorpreso?» inizia Slaver, fin troppo rilassato «Eppure avresti dovuto calcolare anche questa eventualità nel tuo ingegnoso piano.»

«Non dovevi coinvolgerla, maledetto.»

«È così strano sentirti pronunciare queste parole, dopotutto sei tu il primo che l'ha esposta al pericolo.»

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