Credevo sarebbe accaduto ieri notte, che sarebbe strisciato nelle ombre, che mi avrebbe afferrato la gola e zittito per punirmi, umiliarmi.
Invece non è accaduto nulla, proprio nulla.
Continuo a fissare il mio stupore attraverso lo specchio del bagno, vedo riflessa la mia immagine tremante, ma non è quel pezzo di vetro a tremare, è il mio corpo.
Perché Slaver non mi ha punita? Perché? Perché, maledizione? Non è normale, non è normale.
Con le dita strette al bordo del lavandino continuo a fissare quegli occhi scuri, gridano disperatamente una risposta, ma non posso dargliela.
I denti afferrano il labbro, stringono, dolore. Un rivolo di saliva scivola sulla ceramica, proprio accanto a una sbavatura di dentifricio che si sta seccando.
Apro il getto d'acqua, mi lavo la faccia una, due volte. Cerco di lavare via anche i pensieri, come se potessi farlo. Alzo ancora gli occhi, ho il volto rigato di rivoli d'acqua, le ciglia imperlate da alcune gocce e ancora quella domanda nello sguardo. Mi asciugo, torno in camera e indosso il vestito che avevo adagiato sul letto. Un'altra giornata è cominciata, oggi ho tre clienti da soddisfare. Sono meno del solito, non voglio pensare al motivo. Esco in fretta, scendo le scale quasi di corsa.
Vorrei andare a vedere come sta Justin – tanto ormai il danno è fatto – ma sono già in ritardo. Mi ritorna alla mente il suo corpo ferito, legato al letto come un animale. E quegli occhi azzurri che hanno visto troppa violenza, ma che ancora non vogliono arrendersi al destino. Justin è troppo testardo, troppo selvaggio. E se non può essere dominato, è uno schiavo inutile.
Una morsa allo stomaco, un conato di vomito. Non voglio pensarci, non adesso.
Supero il sesto piano con la mandibola serrata, obbligo i piedi stretti nei tacchi alti a correre fino al pian terreno. Non rivolgo un solo sguardo alla segretaria, infilo il cappotto ed esco.
New York è un pittoresco quadro che raffigura l'intera scala dei grigi, su una cacofonia di suoni disturbanti. Il caos, un caos dipinto di grigio.
Accostata al marciapiede c'è una Mercedes, a fianco della portiera spalancata c'è Mike.
Un ragazzo giovane, ancora un po' impacciato, che mi rivolge lo stesso timido sorriso tutte le volte che mi vede. Lavora qui da soli tre mesi, ancora non si è abituato. Almeno viaggiare con lui è piacevole.
Gli concedo un sorriso prima di salire, lui chiude la portiera e corre al posto di guida. Si volta a guardarmi, abbassa gli occhi sul tappetino. «B-buongiorno Lily, come stai?»
Quanta confidenza a una Slave, è davvero ingenuo. «Bene, Mike. Da quali clienti mi porterai oggi?»
Sobbalza per un istante, come se si fosse ricordato all'improvviso dei suoi doveri, e afferra alcuni documenti abbandonati sul sedile del passeggero.
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Slave
Ficción GeneralNew York. Una ragazza risale i piani di un hotel per raggiungere la stanza in cui l'attende il suo cliente. Sa che quell'uomo le farà del male, perché ha sborsato una cifra da capogiro per farlo. Sa che la violenterà, la torturerà, la umilierà. Sa c...