Mi risveglio nel mio letto, la stanza è illuminata, raggi di luce si protendono dalla finestra socchiusa. La brezza gelida di New York s'infila sotto le coperte, mi strappa qualche brivido. Punto una mano nel letto, cerco di alzarmi, ma il mio corpo ancora stremato oppone resistenza. Torno a concedermi al materasso, lo sguardo cade sotto di me dove scure macchie di sangue spezzano il candore delle lenzuola. I ricordi mi assalgono, tutto ciò che è accaduto la sera precedente riemerge vivo e pulsante, doloroso e terribile. Vorrei piangere, ma non ne ho le forze.
All'improvviso uno scroscio d'acqua rompe il silenzio, proviene dal bagno.
«Chi c'è?» mi sforzo di dire, anche se a stento riconosco il suono rauco che mi esce dalla gola.
Alcuni passi, una figura emerge dalla porta socchiusa. È Ronald.
«Cosa ci fai qui?»
L'autista solleva lo straccio bagnato che stringe in una mano. «Pulisco il sangue» asserisce, caustico come sempre, poi lo abbandona a terra e indica il comodino. «Vedi di mangiare.»
Seguo la linea invisibile tracciata dal suo indice e incontro un vassoio perlato che regge un piatto ancora fumante, ma tutto ciò che potrebbe contenere mi fa solo salire la nausea.
«Non ho fame.»
Lui storce appena le labbra e il cipiglio già cupo si trasforma in un'espressione minacciosa. «Mangia.»
«Non ho fame.»
Le sue palpebre si stringono, gli occhi ridotti a due fessure. «Devo costringerti?»
Non mi piegherai anche tu. «Non ho fame.»
Si umetta le labbra, rivolge lo sguardo al soffitto per un istante, poi lascia cadere lo straccio. «Ok.» Tre lunghi passi, mi afferra per i capelli, sono col naso davanti al piatto. Ronald immerge il cucchiaio nella zuppa – ora posso vederla – e me lo spinge in bocca. Serro i denti, ma lui continua a spingere.
«Mangia!»
Il metallo scivola sulle gengive, le taglia, il sapore del sangue si mischia a quello delle verdure. Mi lascia i capelli, ma solo per premere con forza sull'articolazione della mandibola. La bocca si apre contro il mio volere, il cucchiaio scivola in gola. Deglutisco appena prima che un nuovo boccone venga riversato sulla lingua e mi costringo a mandare giù ancora. Il sapore è orribile, o forse lo è solo perché non ho voglia di mangiare. Che importanza ha?
Ronald si ferma solo dopo avermi costretto a ingollare più di metà del pasto, poi lascia cadere il cucchiaio nella poltiglia verde e torna ad afferrare lo straccio. «Sei davvero testarda.»
Ritorna in bagno, l'acqua scorre ancora. Mi rannicchio sotto le coperte, chiudo gli occhi cercando di non pensare a nulla. Sono stanca, sono troppo stanca anche per pensare al minestrone che si dimena nello stomaco e all'odore di sangue che ancora impregna questa stanza.
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Slave
General FictionNew York. Una ragazza risale i piani di un hotel per raggiungere la stanza in cui l'attende il suo cliente. Sa che quell'uomo le farà del male, perché ha sborsato una cifra da capogiro per farlo. Sa che la violenterà, la torturerà, la umilierà. Sa c...