Racconto n° 6

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La tana del lupo

Quella notte del 1944 i lupi erano scesi a valle.

La neve aveva imbiancato le cime dei monti ma era caduta, mai così abbondante, anche nella valle dell'Aterno.

Marana di Montereale era tutta ricoperta da un manto bianco alto più di un metro e i lupi, affamati per un inverno particolarmente rigido, erano venuti giù dalla montagna, attirati dai belati delle pecore e dal chiocciare delle galline. Erano entrati in molti ovili e in molti pollai e solo le fucilate dei proprietari e l'abbaiare dei cani li avevano convinti a rinunciare. Di danni però ne avevano fatti davvero molti.

La mattina dopo i maranesi si svegliarono stanchi per la notte insonne e un po' più poveri per le tante pecore scannate e le galline scomparse. Erano passati prima i tedeschi e poi gli americani, ci mancavano i lupi.

Si decise allora per una forte spedizione punitiva e fu messa una taglia per ogni coda di lupo riportata in paese. I cacciatori più esperti ed i giovani più coraggiosi si prepararono per l'impresa. La decisione era stata lungamente pensata e ponderata. Non era infatti cosa da poco salire sulla montagna, in un freddo quasi polare e tentare di stanare i lupi: la spedizione sarebbe durata ben quattro giorni e bisognava mettere in conto anche infortuni e feriti.

Partirono in diciotto, all'alba di un freddo giovedì, accompagnati da otto cani. Fortunatamente, dall'ultima incursione dei lupi, non era più nevicato.

Le orme dei predatori erano ancora ben visibili, anche se un forte vento di tramontana aveva fatto sparire, per larghe tratte, qualsiasi traccia.

Le tracolle erano piene da scoppiare e pesanti di conseguenza, poi c'erano i fucili, le cartucciere e le munizioni di riserva. Camminare nella neve fresca è sempre particolarmente faticoso e, malgrado l'uso dei racchettoni, la velocità di marcia non superava i due chilometri l'ora.

Tutto il giovedì arrancarono nel bianco, con soste sempre più frequenti, ma la sera li vide attestati ai piedi della grande montagna.

Il campo fu montato rapidamente, e, altrettanto rapidamente vennero accesi i fuochi che servivano per scaldare gli uomini, cuocere i cibi e tenere lontano i lupi. Il vino asprigno dell'ultima vendemmia allietò gli animi e, intorno alle fiamme che si levavano alte, si cantò e si ballò.

La notte trascorse serena senza che nulla accadesse, anche se, sconsideratamente, non era stato predisposto alcun turno di guardia.

Il giorno successivo, venerdì, si cominciò a salire lungo le ripide pendici della montagna. Ora i faggi e i castagni cedevano il passo ad abeti e pini. Tra gli alberi era sempre più difficile seguire le orme dei lupi e i cani, che spesso precedevano gli uomini, invece di aiutare confondevano le tracce; la velocità del gruppo era diminuita di molto.

A sera erano però riusciti a giungere quasi a metà della montagna. Malgrado le soste molto frequenti, la stanchezza aveva reso tutti più nervosi e impazienti. Si accesero ancora i grandi fuochi, si bevve un po' più di vino, si cantò di meno e non si ballò.

Qualche ululato si era fatto sentire, anche molto vicino, ma né i cani né i cacciatori erano riusciti a vedere alcun lupo. Anche questa volta non si ritenne opportuno organizzare dei turni di guardia, tanto c'erano i cani.

Prima dell'alba di quel sabato furono proprio i latrati dei cani a svegliare tutti e l'ululato dei lupi, ora vicinissimi, si mescolava ai guaiti, ai ringhi e a rumori di lotta.

Qualcuno riuscì anche a sparare qualche colpo di fucile, ma, alla fine, si poté solo contare un lupo ucciso e un cane sbranato: un altro cane lo dovette finire il padrone con una fucilata, perché l'animale era stato conciato proprio male. Ormai si era giunti davvero nella zona dei lupi e, fino alla vetta, era tutto loro territorio. Sull'altro versante, povero d'alberi e di vegetazione, le belve non scendevano mai.

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