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Tutti dicono che la notte prima dell'inizio di un viaggio è insonne, passata a rigirarsi nel letto e a controllare l'ora sul display della sveglia ogni due minuti fino a quando non arriva un orario decente per alzarsi. È normale in fondo, visto che si stanno passando le ultime ore nel proprio letto.
Be', mi spiace deludervi ma io ho dormito così profondamente che nell'infilarmi la felpa davanti allo specchio nell'ingresso- già in piedi da un'ora, vestita e profumata come una carovana di spezie sulla via della seta- non ho potuto non notare due evidenti segni del cuscino sulla mia guancia destra.
Mi picchietto leggermente la guancia con i polpastrelli, ma non cambia niente. Nel frattempo i miei genitori mi raggiungono, i capi chini sullo schermo dei loro iPhone X e i pollici che si muovono a velocità supersonica.
«Ti porto la valigia in macchina.» dice mio padre senza distogliere l'attenzione da ciò che sta scrivendo. Aziona il comando vocale e mentre con una mano trascina la valigia fuori dalla porta, con l'altra stringe il telefono e parla come se stesse dettando.
Rimango in piedi davanti a mia madre, aspettando pazientemente che finisca di scrivere il capitolo. Dopo un paio di minuti di totale silenzio, blocca lo schermo con un sospiro e si soffia via un ricciolo biondo che le è caduto sulla fronte.
Con un fischio chiamo Conchi, che arriva trotterellando e ansimando. Lo accarezzo distrattamente sulla testa mentre mi guardo intorno, cercando di memorizzare ogni singolo particolare di questa casa che non rivedrò prima di novanta giorni. I libri di Oscar Wilde impilati vicino al caminetto. La mia prima lettera a Babbo Natale incorniciata in salotto. Le foto di noi tre davanti al Museo degli Uffizi a Firenze.
«È ora di andare.» mi avverte dolcemente mia madre.
Annuisco, do un ultimo buffetto a Conchi e apro la porta. Vengo subito investita dall'aria frizzante mattutina e mi tiro su il cappuccio mentre percorro il vialetto d'ingresso verso la berlina parcheggiata davanti a casa. Mi sistemo nei sedili posteriori e abbandono la borsa accanto a me, mentre mia madre prende posto davanti.
Per arrivare alla stazione di Leicester ci impieghiamo non meno di una buona mezz'ora, ma quando sto salendo le scale verso il mio binario mi sembra di essere uscita di casa cinque minuti fa.
I miei mi danno le ultime raccomandazioni- "stai attenta", "cerca di prenderla seriamente ma non troppo", "divertiti", "non drogarti"- giusto poco prima dell'arrivo del mio treno.
Li abbraccio un'ultima volta, poi salgo sul treno e per poco non mi sbilancio e ricado giù tanto è pesante la valigia. Mi giro verso i miei genitori, che si stanno sbattendo entrambi il palmo della mano in faccia, e sollevo un pollice nella loro direzione per informarli che sono ancora tutta intera. Dopodiché mi trascino dietro la valigia lungo il corridoio e una volta avvistato un posto libero mi sorge un piccolo dubbio. Come diavolo faccio a sollevare la valigia e sistemarla sopra?
Mi guardo intorno. Nessuno sembra aver fatto caso a me. Provo a sollevarla un paio di volte, ma quando per sbaglio mi ricade sul piede destro e mi scappa una bestemmia che fa girare un paio di vecchie signore scandalizzate, decido che è meglio chiedere aiuto.
Mi rivolgo a un ragazzo con gli auricolari intento a guardare un video sul cellulare. Gli picchietto un dito sulla spalla per richiamare la sua attenzione. Lui sussulta e si gira così di scatto che mi spaventa a mia volta.
«Scusa, potresti aiutarmi con quella?» chiedo gentilmente indicando la mia valigia quando si toglie gli auricolari. Cerco di non pensare che un istante fa ci siamo spaventati a vicenda, altrimenti per la vergogna potrei spaccare un finestrino, saltare giù e correre fino a Bristol.
«Uhm, forse è meglio se chiedi alla mia ragazza.» mi risponde lui scrollando il braccio della giovane seduta a fianco a lui. Un mastino con i capelli lunghi mi rivolge un'occhiata truce e non ho nemmeno il tempo di dirle che fa lo stesso che lei si è già alzata e mi ha sollevato la valigia con una mano. Balbetto un "grazie" e corro a sedermi prima che possa pensare di sollevare anche me. Accidenti, che gente strana.

Il treno parte un po' in ritardo, ma tanto io non ho fretta di arrivare a destinazione, anzi. Cerco di distrarmi il più possibile ascoltando la musica e guardando fuori dal finestrino, ma ben presto la noia si impossessa di me. Provo a dormire, ma dopo meno di mezz'ora vengo svegliata da un paio di bambini che attraversano il corridoio schiamazzando. Controllo un po' Facebook e Instagram, origlio la conversazione di due ragazze sedute dietro di me e leggo qualche pagina del nuovo libro di mio padre, "Le Belle Addormentate", ma lo abbandono quasi subito in fondo alla borsa.
Quando manca poco meno di un'ora a Bristol, il treno si ferma nella stazione di Cheltenham. Salgono solo un paio di persone prima che il treno riparta e una delle due- un ragazzo biondo con una maglietta rossa- si siede di fronte a me. Dopo qualche minuto, quando entriamo in una galleria, noto dal riflesso sul finestrino che mi sta sorridendo apertamente. Un po' stranita, mi guardo intorno per capire se si sta rivolgendo a qualcun altro.
«Scusa, per caso ci conosciamo?» chiedo stupidamente.
«No.» mi risponde con naturalezza continuando a sorridere. Più lo guardo e più mi fa pensare allo Stregatto di Alice nel paese delle meraviglie.
«D'accordo.» mi limito a dire poco convinta. Senza cercare di dare nell'occhio, infilo una mano nella borsa e stringo la bomboletta di spray al peperoncino.
Dopo qualche minuto che non la smette di fissarmi e sorridermi, sentendomi estremamente a disagio, decido di affrontarlo.
«C'è qualcosa che non va?»
«Sto solo cercando di infondere un po' di ottimismo e amore in quel faccino smunto.» risponde con un forte accento francese.
Mi muovo a disagio sul mio sedile. Questo ragazzo è chiaramente fuori di testa. Stringo ancora più forte la bomboletta.
«Lo sai cosa dice Isabel Allende? "La cosa migliore che si riceve è l'amore che si dà".» continua con la sua forte cadenza francese che mi dà sui nervi. «Scommetto che tu non hai mai amato tanto.»
Rimango a fissarlo per un po', indecisa tra il chiamare il controllore e lo scendere alla prossima fermata. Cerco di prendere tempo stando al suo gioco, come quando sussurri parole dolci mentre ti avvicini ad un rottweiler, temendo che possa scattare da un momento all'altro.
«Cosa te lo fa pensare?»
«Riesco a percepirlo.» risponde con tono ovvio.«Io sono lo spirito dell'Amore.»
«Piacere di conoscerti spirito dell'Amore, io sono Claire». Mi sembra di star parlando con un bambino di sei anni. Non mi stupirei se tirasse fuori un paio di tazze e mi ordinasse di far finta di bere.
Tutte le mie preoccupazioni in questo momento svaniscono alla vista del controllore in fondo al corridoio. Recito mentalmente il Padre nostro mentre lo vedo avanzare nella mia direzione.
«Scusi.» richiamo la sua attenzione costringendolo a fermarsi.
«Che succede, signorina?» mi domanda con aria annoiata mentre mastica rumorosamente una gomma.
«Credo che questo ragazzo abbia qualche problema.» vado dritta al punto indicando il ragazzo biondo seduto di fronte a me. «Non lo sto dicendo tanto per, ne sono fermamente convinta visto che poco fa...»
«Signorina, qui non c'è nessuno.» mi interrompe irritato il controllore.
Aggrotto le sopracciglia, guardando prima lui e poi il biondo.
«Come, prego?» ribatto incredula. «Quello seduto di fronte a me cosa le sembra? Un carciofo?»
«Al momento l'unica che sembra avere qualche problema è lei.» dice il controllore facendo per andarsene.
«Come fa a non vederlo? È proprio qui di fronte!» esclamo allungandomi verso il biondo, ma il controllore riprende a camminare lungo il corridoio dopo avermi mandata a quel paese.
Allungo una mano verso la spalla del ragazzo, ma quello che le mie dita toccano non è altro che l'usurata imbottitura del sedile. Lui nel frattempo continua a sorridermi. Guardo confusa la sua t-shirt rossa e mi chiedo se per caso l'erba di Camila non sia finita nel mio naso per sbaglio.
Proprio in questo momento la voce registrata comunica che la prossima fermata è Bristol. Abbasso un attimo lo sguardo per chiudere la zip della borsa e quando lo rialzo lo strano ragazzo è scomparso.

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Dopo l'episodio del treno, mi sono schiaffeggiata la faccia un paio di volte per assicurarmi di essere sveglia e vigile. Lo spirito dell'Amore è poi finito in un angolino della mia mente, visto che ho dovuto affrontare problemi più gravi come riuscire a trovare un taxi libero, per poi scoprire che dalla stazione all'indirizzo dove si trova quella che sarà la mia casa per i prossimi tre mesi sono circa quaranta minuti.
Alla fine, quando il taxi mi molla davanti alla casa con la mia valigia e il portafogli decisamente alleggerito, è quasi ora di pranzo. Rimango un attimo ad osservare la casa dall'esterno. Sembra una versione più piccola della murder house della prima stagione di American horror story, con le finestre rotte, l'intonaco ormai inesistente e secchi ciuffi d'erba morta che mi sfiorano le caviglie mentre percorro il vialetto d'ingresso. Ripesco la chiave in una tasca dei jeans e apro la porta non senza difficoltà, aspettandomi quasi di veder arrivare Tate e Violet.
Vengo subito investita da una pesante zaffata di muffa e polvere e sono costretta ad affondare naso e bocca in un braccio per riuscire a impedirmi di correre fuori urlando e strappandomi i capelli per la rabbia. La casa è infatti messa molto peggio di quanto pensassi. Per terra e sui teli bianchi che coprono i divani del soggiorno ci sono minimo due dita di polvere. Esplorando la cucina e il bagno al piano terra, pesto innumerevoli frammenti di vetro e cerco di reprimere l'istinto di lanciare le sedie di legno marcio direttamente fuori dalla finestra.
Penso che nemmeno i miei genitori sappiano in che condizioni si trova la casa. Più che restaurata, deve essere demolita e le sue macerie cosparse di sale come fecero i Romani con Cartagine.
Lascio la valigia in soggiorno e mi avventuro al piano di sopra, procedendo cauta sulle scale mezze rotte e traballanti. Ci sono cinque stanze che si affacciano sul corridoio centrale: un bagno, due camere da letto, uno sgabuzzino e una stanza chiusa a chiave. Provo invano a forzare la serratura di quest'ultima stanza, ma dopo il mio deprimente fallimento ritorno al piano terra con una scopa trovata in un angolo dello sgabuzzino.
Inizio a spazzare svogliatamente, asciugandomi di tanto in tanto piccole gocce di sudore che mi imperlano la fronte. Qui dentro c'è un caldo asfissiante tale che nel giro di neanche mezz'ora ho già la schiena bagnata di sudore.
In una borsa di plastica che conteneva dell'argenteria svuoto la paletta piena di polvere, terra e pezzi di vetro che ho raccolto con la scopa e verso l'una incomincio a vedere la superficie del pavimento. Prendo poi il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e mando una foto ai miei del salotto indecente con il mio terzo dito in primo piano.

Nascondo la valigia sotto al lavandino in cucina e, dopo aver chiuso a chiave la porta d'ingresso, mi avvio verso il centro del paese. La cartina non mi serve a molto, visto che mi trovo in un paesino nell'estrema periferia di Bristol.

In una manciata di minuti raggiungo la piazza centrale, circondata da negozi e locali. Entro in una specie di Burger King dei poveri chiamato "Hamburger Queen" e mentre vengo servita inizio a stilare una lista di tutto ciò che devo comprare: detersivi, strofinacci, un mocio e un sacco a pelo perché non ho assolutamente intenzione di dormire su quel divano. Ho deciso che almeno finché non troverò qualcuno che ripari le scale non mi avventurerò più al piano di sopra.
Dopo aver trovato tutto ciò che mi interessa in un discount, ritorno sui miei passi.
«Casa dolce casa.» sospiro ironicamente mollando a terra le due borse di plastica nell'ingresso.
Guardo sofferente il loro contenuto. Il mio cuore dice "chiama gli architetti di Extreme makeover: home edition", la mia mente "muovi il culo se non vuoi essere diseredata".
Soffocando le bestemmie che potrebbero essere udite dalla strada inizio pigramente a lavare il pavimento.
Mentre mi trovo in un angolo del divano a giocare a Candy Crush in attesa che il pavimento si asciughi, sento all'improvviso un rumore sordo provenire dal piano di sopra, come di un vaso che cade sulla moquette. Sento il sangue gelarsi nelle vene all'istante.
Con una mano compongo il numero della polizia, pronta a far partire la chiamata in caso di necessità, mentre con l'altra afferro il primo oggetto che mi capita sottomano: una spazzola di plastica rosa. Con il cuore in gola, salgo lentamente le scale. Quando arrivo in cima sento delle voci attutite e gli occhi mi si stanno riempiendo di lacrime. Ti prego Dio, non voglio morire qui. Fa' che siano dei pappagalli, uno stereo, quello che vuoi, ma non voglio morire qui.
Le voci provengono dalla seconda camera da letto, così mi avvicino con cautela. Prima di affacciarmi oltre la porta sento il cuore battermi talmente forte nel petto che temo possano sentirlo anche loro, forte e chiaro come lo sento io.
Chiudo gli occhi per raccogliere quel poco di coraggio che non ho mai avuto e fare irruzione nella stanza con la mia spazzola, ma quando li riapro mi ritrovo tre paia d'occhi proprio di fronte a me che mi fissano incuriositi.
Spalanco la bocca per lo spavento e urlo con tutto il fiato che ho in gola, lanciando la spazzola nella loro direzione.

Oh my ghost// Blake Richardson New Hope ClubDove le storie prendono vita. Scoprilo ora