6. La medium

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Thomas stava caricando la lavatrice quando bussarono alla porta. Di recente anche a lui era stata allacciata la linea del citofono, per cui un ipotetico ospite si sarebbe annunciato attraverso il trillo. Se aveva raggiunto la porta e non entrava – Liz aveva ancora le chiavi, che aprivano l'ingresso della palazzina e la porta dell'appartamento, – poteva trattarsi unicamente di un vicino.

Finì di vuotare il cesto di plastica grigio e andò alla porta. Si scordò di guardare dallo spioncino, una pessima abitudine dell'adolescenza mai corretta. La aprì per trovarsi davanti una ragazza bassa, con i capelli biondi scarmigliati le cui punte, di un pittoresco blu di Prussia ormai smunto, le arrivavano poco sotto le orecchie.

La osservò con gli occhi a mezz'asta, il mento sollevato. Lei ricambiò con la stessa sicurezza nello sguardo ampio e scuro. Teneva le braccia lungo i fianchi, ma la sua posa non comunicava timidezza. Era il contrario: sembrava controllare la forza che possedeva assumendo un atteggiamento remissivo.

Thomas fece scorrere gli occhi sull'abbigliamento: la ragazza portava un giubbotto di jeans, una maglietta blu con stampata in giallo la parola francese Pas, una gonna di denim con gli orli sfrangiati. Se formulò un giudizio fugace lo tenne per sé, e così fece lei, che di argomenti d'imbarazzo ne avrebbe avuti: Thomas aveva addosso una camicia a scacchi aperta senza maglietta, jeans stazzonati ed era a piedi nudi.

«Sono Mae. Abbiamo parlato ieri al telefono. So di essere in anticipo, ma non volevo aspettare in macchina. La porta d'ingresso è aperta e sono salita.»

Gli occhi di Thomas si spalancarono per quello che non doveva essere un palesamento, perché avrebbe dovuto attendere la ragazza o, perlomeno, la attendeva anche se per mezz'ora più tardi.

«Stavo facendo il bucato» si giustificò tendendo la mano.

«Piacere mio.» Mae aveva una bella voce, femminile e aggraziata, in antitesi con il suo aspetto tomboy.

Thomas si scostò dalla porta, un gesto che la invitava ad entrare. Entrambi conoscevano la ragione dell'appuntamento. Non ebbero pertanto bisogno d'indugiare in spiegazioni o di ricordare una telefonata piuttosto sbrigativa. Inoltre, tutti e due erano personaggi schivi e poco portati alla prolissità. Parlavano con il corpo, non con le parole.

Mae fece appena un passo avanti e si trovò dentro la stanza luminosa. Senza preavviso, come per una reazione inconscia, disse: «È qui».

Thomas richiuse la porta e si allontanò un poco per lasciarle spazio. Si mise spalle al muro senza appoggiarsi. Guardò nella stessa direzione cui Mae aveva indirizzato lo sguardo e realizzò in un istante che era una delle traiettorie preferite del gatto, la porzione fra la poltrona e la finestra, lo spazio che nella sua prima vita da scettico credeva fosse caro al felino per la vicinanza con l'esterno degli uccelli e degli insetti.

«È una lei» confermò Mae, ma Thomas non parlò.

La ragazza avanzò guardando verso sinistra; sollevò la mano destra e con il palmo ben aperto, le dita tese, tastò l'aria. Anche Thomas si accorse di un cambiamento della temperatura nella stanza. Stava succedendo qualcosa a cui lui aveva accesso solo marginalmente. Mae continuò a spostarsi, avvicinandosi alle pareti e allontanandosene, finché sembrò scovare una strada invisibile che la condusse alla poltrona.

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