Capitolo Due

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La sua prima giornata a Roma passò lentamente, senza che lui avesse veramente qualcosa da fare, ma almeno nessuno dei pochi detenuti che aveva incontrato lo disturbò. Fabrizio era ritornato poco prima di cena ed era stato in silenzio per tutta la serata, non che ad Ermal dispiacesse, ma un po' di conversazione per abituarsi meglio al nuovo ambiente non gli avrebbe fatto male.

La mattina seguente, mezz'ora dopo la sveglia delle sette, una guardia spalancò la porta della sua cella, venendo a prelevare il suo compagno di cella come il giorno precedente.

"Mobrici!" chiamò l'uomo in divisa "Prenditi anche lui con te a lavorare" disse, riferendosi a Ermal con un cenno della testa.

Il riccio, che fino a pochi istanti prima era rimasto seduto sul letto e con le gambe a penzoloni, si alzò di scatto e piombò per terra con un tonfo, perdendo per un attimo l'equilibrio, ma riuscendo comunque a restare in piedi. Seguì l'altro ragazzo, non sapendo dove fossero diretti, e dopo pochi minuti spalancò le porte di un'enorme cucina.

"Fai il cuoco?" chiese Ermal sorpreso.

"Già, e tu apparentemente sarai il mio aiuto cuoco" replicò l'altro, con la voce ancora leggermente arrochita dal recente risveglio.

Durante quell'ora che passarono a stretto contatto, il riccio scoprì che Fabrizio aveva ventinove anni e, prima di essere trasferito, aveva già scontato una pena di cinque anni per spaccio di sostanze stupefacenti, quindi in pochi mesi anche lui sarebbe stato libero. Anche Ermal gli rivelò qualche informazione sulla sua vita, azzardandosi anche a dirgli che proveniva dall'Albania. Il più grande non fu per niente turbato, al contrario di tutti quelli che lo scoprivano, e l'altro ne rimase a metà fra il sorpreso e il soddisfatto.

Il lavoro in cucina occupava gran parte delle sue giornate, mentre il resto delle ore lo passava o nel cortile interno oppure chino sui libri di lingue, a studiare per quell'università che tanto avrebbe voluto frequentare, ma che ovviamente non poteva, per cui si limitava a prendere in prestito svariati volumi dalla biblioteca, per poi studiarseli per conto suo.

Mentre i giorni passavano in una relativa quiete, le notti erano più problematiche. Raramente riusciva ad addormentarsi ad orari dignitosi e, quando finalmente riusciva a prendere sonno, era tormentato da continui incubi su suo padre e sul carcere precedente. Ormai non ci sperava nemmeno più nella fine di quei brutti sogni.

Fabrizio si svegliò a causa di alcuni gemiti che provenivano dal letto sopra il suo: era la quarta notte di fila che succedeva. Capiva che gli istinti sessuali in carcere erano repressi e un modo per sfogarli bisognava pur trovarlo... ma dannazione, non alle due di notte!

Provò a dare qualche colpo sopra di sé, per intimargli di smetterla e di lasciarlo dormire in santa pace, ma dopo il terzo tentativo sbuffò spazientito e si alzò dal letto.

Guardò verso il letto di Ermal e in quel momento si rese conto che il ragazzo stava dormendo, ma si muoveva comunque convulsamente, era sudato ed emetteva alcuni versi che realizzò essere un misto fra terrore e sofferenza. Fabrizio si arrampicò velocemente e lo iniziò a scuotere delicatamente.

"Ermal..." lo chiamò "Ermal, svegliati"

Il riccio mugugnò qualcosa, ma non dava nessun segnale di riemergere da quel sonno tormentato.

"Ermal sono io, sono Fabrizio" lo scosse di nuovo, con un po' più di forza. A quel punto il ragazzo si svegliò di soprassalto, mettendosi seduto sul letto, e si discostò bruscamente dalle mani tatuate dell'altro, che lo stavano ancora toccando. Lo guardò con gli occhi pieni di sgomento e terrore, e Fabrizio alzò le mani in segno di resa, per fargli capire che non aveva intenzione di fargli del male.

Quando Ermal realizzò finalmente quello che stava succedendo e dove si trovava, si iniziò a tranquillizzare e mise a fuoco il suo compagno di cella.

"Mi... mi dispiace" balbettò, notando lo sguardo preoccupato del moro.

"Va tutto bene, non è successo niente" lo rassicurò Fabrizio, con la voce roca e calma "Ti va di scendere e parlarne?"

Ermal, senza capire il motivo di quell'improvvisa confidenza che si stavano dando, annuì e scese dal suo letto al seguito del più grande. Quest'ultimo si sedette sul suo giaciglio e batté la mano sul materasso, indicandogli dove sedersi. Il riccio, sopraffatto da quei gesti di gentilezza così inusuali per lui, si schiuse come un bocciolo al sole e iniziò a raccontargli tutta la sua infanzia: dai primi anni passati in Albania, all'arrivo in Italia, sorprendendosi sempre di più di tutte quello che stava confessando al compagno di cella.

Si sentiva in qualche modo collegato a lui e, nonostante sapessero praticamente nulla l'uno dell'altro, dentro di sé sentiva di potersi fidare, anche se non si sapeva ancora spiegare il perché. Lui, che aveva sempre avuto un carattere molto chiuso e che non era mai riuscito ad aprirsi con nessuno, si ritrovava a raccontare tutta la sua vita problematica a un semisconosciuto, a notte fonda e in un carcere di Roma.

"Fin da quando mi ricordo, mio padre ha sempre picchiato sia me, che mia madre e che i miei fratelli" si ritrovò a dire "Senza nessuna motivazione valida, magari tornava a casa e aveva alzato il gomito più del solito e iniziava a prendere a calci e pugni o me o mio fratello. Mia madre cercava sempre di difenderci, usava il suo corpo come scudo ma, dopo che aveva finito con noi, passava a lei. Mia sorella, per fortuna, non l'ha mai toccata, glielo abbiamo sempre impedito, in un modo o nell'altro. Eravamo sempre pieni di lividi e tagli, la notte non dormivamo perché sentivamo nostra madre urlare e piangere dal dolore, le sue suppliche di smetterla e il rumore dei cazzotti che si infrangevano sul suo volto e nello stomaco. A scuola tutti ci chiedevano cosa ci fosse successo e noi cercavamo sempre di inventarci scuse, dicevamo di essere caduti mentre giocavamo o che ci eravamo picchiati fra di noi dopo un litigio, anche se un bambino non avrebbe mai potuto causare delle ferite del genere."

Ermal sospirò: raccontare quelle cose gli faceva male, ma si rese conto che si stava liberando anche di un peso, e pensò che forse il suo compagno di cella lo avrebbe aiutato a sopportare quel macigno che aveva sul cuore.

"Non devi per forza continuare, piccolè" lo rassicurò Fabrizio, apostrofandolo con un affettuoso appellativo, per il quale il riccio incurvò appena verso l'alto le labbra.

"Voglio farlo" replicò Ermal, con fare abbastanza sicuro per la situazione in cui si trovava "Un giorno, però, raggiunse il limite" continuò il ragazzo "Riuscì a rompermi un braccio, ed impedì a mia madre di portarmi al pronto soccorso... quindi, quella stessa notte, fece le valigie, prese quei pochi soldi che aveva racimolato e conservato di nascosto, per poi svegliare me, mio fratello e mia sorella. Scappammo da Fier. La mattina, dopo che avevamo raggiunto la costa, prendemmo il primo traghetto per l'Italia e sbarcammo a Bari, per cercare di rifarci una vita, lontano da quel mostro"

Rimasero in silenzio per quella che a entrambi sembrò essere un'eternità, poi Fabrizio aprì le braccia ma memore di quello che era successo poco tempo prima, chiese "Posso?"

Ermal annuì vigorosamente e si buttò fra le braccia tatuate dell'altro ragazzo, che lo strinse a sé. Rimasero diverso tempo in quella posizione, fino a quando il moro si accorse che il respiro del più giovane si era regolarizzato.

'Maledizione' pensò, imprecando internamente. Nonostante questo, gli piangeva il cuore doverlo svegliare, conscio delle ore turbolente che aveva appena passato, per cui si sdraiò delicatamente sul materasso, lasciando dormire Ermal, appoggiato all'altezza del suo cuore.

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