Capitolo Sei

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Ermal se ne stava sdraiato sul misero spazio verde presente nel giardino esterno di quel carcere, appoggiandosi sui gomiti per osservare meglio Fabrizio giocare a calcio con alcuni degli altri detenuti, compresi Claudio e Roberto. Nonostante si ostinasse a dire di avere "due piedi sinistri", correva a perdifiato dietro al pallone, cercando di toglierlo agli altri giocatori senza successo. La chitarra, che gli era stato concesso di portare fuori, giaceva ormai dimenticata sull'erba affianco a lui, mentre era ormai perso a godersi lo spettacolo di quello che gli piaceva considerare il suo "ragazzo" tutto sudato, con le braccia tatuate in bella vista, che rideva e si divertiva come un bambino. Lo vide abbandonare il campo e trotterellare felice nella sua direzione, chiamandolo a gran voce. Il diretto interessato lo guardò dubbioso, finché lui non arrivò dove se ne stava beatamente coricato e lo fece mettere in piedi.

"Dai Ermal! Vieni a giocare pure tu!" lo incitò, iniziando a dargli diverse spintarelle leggere con una spalla.

"Bri, lo sai che non sono buono" piagnucolò il riccio, opponendosi debolmente alle sollecitazioni dell'altro.

"Ma fa lo stesso, siamo fra noi, mica giochiamo nella nazionale! Dai andiamo!" e detto questo, lo trascinò sul campo, prendendo la palla e passandogliela con un calcio destro non troppo preciso. Alla fine dei fatti, Ermal dovette ammettere di essersi divertito, con Fabrizio che cercava di spaventarlo fingendo di stare per commettere fallo su di lui, e che invece gli soffiava la palla da sotto il naso con uno scatto felino che non gli avrebbe certamente attribuito, per poi farsela sottrarre pochi istanti dopo da qualcun altro più abile e veloce di lui.

La tentazione di buttarglisi addosso, abbracciandolo da dietro e lasciargli qualche leggero bacio sul collo, era molto forte, ma Ermal dovette trattenersi dal farlo, per evitare di dare spettacolo davanti a tutti i detenuti e alla polizia penitenziaria. Quando furono stanchi di giocare, si ritirarono nella cella, pronti ad andare a lavarsi e poi dirigersi in cucina per iniziare il loro turno di lavoro. Decisero saggiamente di andare a farsi la doccia in due momenti separati per evitare di cedere a tentazioni di qualsiasi tipo e per non beccarsi una denuncia per atti osceni in luogo pubblico con una conseguente multa, un periodo di isolamento e un allungamento della pena da scontare, per non parlare del fatto che li avrebbero sicuramente smistati in celle diverse, se non in carceri diversi.



Quando Ermal ritornò dalla zona docce, Fabrizio non era ancora del tutto vestito, e se ne stava beatamente seduto sul letto a torso nudo, appoggiando la schiena alla testiera, dove aveva posto un cuscino per stare più comodo. Aveva un paio di occhiali da vista appoggiati sul naso e il solito quadernino consumato in grembo, mentre teneva distrattamente fra le labbra una penna ormai distrutta dal suo continuo mordicchiarla con i denti. Il riccio boccheggiò alla vista dell'altro, soffermando il suo sguardo sui muscoli dell'addome contratti per mantenere quella posizione, sui tatuaggi che segnavano la sua pelle olivastra e sulla sua bocca, che continuava a muovere in smorfie involontarie, mentre inseguiva qualche pensiero nella sua mente e lo annotava con la sua scrittura veloce e disordinata sulle pagine ancora bianche.

Quando Fabrizio si accorse dell'arrivo dell'altro, alzo lo sguardo pigramente e lo guardò attraverso le lenti sorridendo sornione.

"Hai un po' di bava qui" disse indicandosi un angolo della bocca e continuando a ridacchiare.

Ermal con un gesto repentino si passò la mano sul volto, per poi fulminare il romano con lo sguardo, quando si accorse della presa in giro nei suoi confronti.

"Che bastardo" brontolò in protesta.

"Mica è colpa mia se ti eri incantato" si giustificò l'altro, mollando il quadernino e alzando le mani in segno di resa.

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