IV "OGGI NON SONO UN CADAVERE" NICKSON

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Erano passati soltanto sei minuti da quando ero là dentro da solo e mi tolsi le cuffie ponendole nello zaino. Almeno là dentro era tranquillo e non mi avrebbe disturbato niente o nessuno. Poi, sentendo i passi sulle scale, arrivò una ragazza. Non avevo capito cosa aveva combinato ma da quello che la signora Johnson, o almeno così avevo sentito che si chiamasse, aveva detto era anche lei nei guai e, prima di andarsene, la donna aggiunse: "questa va dritto dal preside". La fece sedere al tavolo accanto al mio, a circa tre metri di distanza. Per più di un paio di minuti, davvero lunghi per me, restò immobile a braccia conserte, muovendo freneticamente la gamba destra, poi quella sinistra. Sbuffò un po' prima di dire -Davis-. La sua voce barcollava tra la rabbia e la timidezza. -Come?- chiesi. Avevo capito perfettamente cosa aveva detto, ma mi pareva strano rispondere subito. Nonostante avessi addosso solo una maglietta, là sotto si moriva di caldo. Toccai con l'indice la parte inferiore dell'occhio. Temevo di trovare il polpastrello tutto colorato di nero, ma sapevo che sfumavo molto la matita per evitare proprio che si rovinasse con un po' di sudore. - Il mio nome. Noah Davis. Perché sei qua? - chiese, strofinando il pollice contro le labbra, quasi come se volesse mordersi le unghie. C'era qualcosa di strano coi suoi capelli. Erano di un nero mai visto prima. Le arrivavano poco più giù della spalla. - Ho fatto tardi per la lezione e mi hanno trovato nel corridoio a "vagare". E tu? - ammetto che quella discussione stava diventando più informale. - Ho fatto una cosa. Cioè... ho nascosto una cosa- mi confessò, guardando nel vuoto. Era alquanto in agitazione nel parlarmi. - Era qualcosa di così importante per mandarti qua? - . - Beh... -. Quanto odiavo queste riposte. Quel "beh", poi"già" fino a passare all'orribile " esatto". Si usavano quando non sapevi continuare una frase e, per dire almeno "ho risposto, ora tocca a te aprire bocca", ti costringevano a dire qualche altra cosa, quasi sempre senza senso. Di solito in queste situazioni me ne sarei andato o semplicemente avrei finito lá la discussione, ma capí che forse aveva bisogno di parlare. - Emh, sarò muto come un pesce. - e così dicendo, feci finta di chiudermi la bocca. - Diciamo che avevo nascosto una busta in biblioteca e, poco fa, mi hanno scoperta. Ero andata a metterla da un'altra parte stamattina, sapevo che prima o poi l'avrebbero trovata, ma la signora Johnson l'aveva già perquisita.-.-Cosa c'era lì dentro? -. Continuava a fissare il vuoto, e si girava ogni tanto per guardarmi. -Sapevo che appena qualcuno l'avrebbe vista avrebbe pensato a qualcosa di losco, come, non so, della droga. Insomma, è più bianca di te. Emh, senza offesa- volevo scoppiare a ridere. La mia pelle era bianca nonostante restassi ore sotto il sole. Ma adoravo vedere le vene del braccio percorrerlo fino ad arrivare alle mani. Credo di aver preso da mia madre, in questo caso. - Quindi era... -. -Zucchero. Semplicemente un po' di zucchero bianco. L'unica cosa illegale in quella busta era la dolcezza esagerata. - e finalmente anche lei sorrise, mostrando i denti bianchi, a differenza del nero scuro dei suoi capelli. Anche io avevo i capelli neri, ma riflettevano alla luce del sole un rosso ramato molto forte che li trasformava. E poi i miei non erano tanto lunghi come i suoi, né tanto meno ordinati. Durante quella discussione mi resi conto che cacciai numerose volte l'anello dal dito, per poi rimetterlo al suo posto. Lo facevo sempre quando ero in ansia. - E perché nascondevi dello zucchero a scuola? Non è che lo sniffi, no? - E potei sentire la sua risata. Facevo pena nelle battute ma avevo capito ormai che se qualcuno rideva era perché aveva trovato divertente quello che dicevo. - Proprio sniffare no. Ma... soffro di ipoglicemia, hai presente no?- . -Si, ne ho letto qualcosa. Ma non ti devi preoccupare, questa è una malattia vera e propria, hai bisogno di mangiare zuccheri. Basta portare il certificato medico...-.-Pensi che non lo abbia già fatto?- mi interruppe- andava tutto bene finché l'anno scorso in mensa hanno cominciato a mettermi quintali di zucchero per scherzo nel pranzo. Sono stata per 2 settimane senza mangiare, fino a quando non tornavo a casa. Perfino sul quaderno ho trovato la scritta "Davis succhia zucchero" fatta col pennarello indelebile. Ho dovuto lasciare stare tutto e fingere di non aver più bisogno di ingerire dolci e, dopo qualche giorno, tutto è tornato normale. Ma come hai detto tu, è una malattia e, per ora, l'unico modo per "curarmi" è farlo di nascosto. Ero venuta l'ultima volta una settimana fa, così l'avrei avuto per un buon periodo senza portarlo di nascosto, ma sai già che è successo- . -Capisco, e i tuoi in tutto questo non possono fare niente? Insomma, non sanno che ne soffri?- . -Certo che lo sanno, ma i miei non si preoccupano mai di me. Gli ho detto che porto a scuola ogni giorno qualcosa di dolce e che ogni terzo giovedì del mese dopo la scuola vado dal medico, e a loro è bastato sentire questo per stare tranquilli. Piuttosto, credo che si vergognino di me. Fin da piccola mi dicevano che il mio primo compito era quello di raggiungere al più presto la perfezione, ma quale perfezione se la tua malattia ti porta a mettere su un chilo al mese. Per questo mi hanno iscritta in palestra, anche se non volevo, ovviamente - Sarebbe arrivata a mordersi anche le ossa delle dita s non avesse smesso di mordersi le unghie. -Ma ora basta parlare di me, sconosciuto. Non mi hai ancora detto il tuo nome.- "Oh no, il nome no". C'era una buona possibilità che, avendole detto il nome, o il cognome in questo caso, la fiducia che si era formata sarebbe andata a farsi fottere. -Puoi chiamarmi Seven. Così mi chiamano gli amici.-. Se solo ne avessi avuti, di amici. Col fatto che non dicevo quasi mai il mio nome vero, tutti credevano che fosse veramente Seven. Ma nessuno sapeva il motivo e di certo non andavo in giro a spiegarlo. -Seven? Interessante. Come il tuo look, d'altronde.- Ed eccoci qua. Lo step della conversazione che faceva finire ogni rapporto. Chissà quale sarebbe stato il suo parere: dal "sembri un cadavere" al "in confronto Dracula è uno scherzo". E mi erano già capitati tutti questi commenti. Ma nel sentire uscire dalla sua bocca le parole " MI PIACE", iniziai a dubitare che quella fosse davvero la realtà  e non solo un altro sogno ad occhi aperti. Mi vide che stavo ragionando con me stesso e mi chiese -Ho detto qualcosa di male ?. -Assolutamente no!-risposi immediatamente- Sto solo realizzando ora cosa significa ricevere un complimento- e risi leggermente, per non sembrare troppo cupo, cosa che in realtà sono. Lei continuò a guardarmi, accennando solamente una parte di sorriso. -Chissà che mi succederà ora?- riprese, ponendo lo sguardo verso la porta principale- voglio dire, non sono mica il figlio di Nickson. Capisci che intendo, vero?-

C'erano molte cose che non andavano in me, ma nonostante ciò, se c'era una cosa che non facevo mai anche se avrebbe potuto evitarmi qualche problema, era mentire. In quel momento sembrava giusto dirle la verità, ovvero che sono io il figlio dell'uomo che ha licenziato quasi tutti i lavoratori della fabbrica automobilistica della città, facendogli passare un periodo di totale assenza di soldi e quindi, di assoluta povertà. -Dopo quello che ha fatto, quasi tutta Windsor lo guarda male quando è per strada. Un mio amico mi ha detto che il figlio è arrivato oggi. Sai, suo padre era tra i lavoratori della fabbrica e pochi mesi fa ha cercato di uccidersi. Sam non ha ancora digerito la cosa.- Sentendo quelle parole mi sentivo come se fossi io l'artefice di quel finimondo. Mio padre si, era stato uno stronzo, ma so che non aveva preso lui quella decisione. Ha solo avuto la sfortuna di annunciarlo di fronte a più di trenta mila persone. - Si, ho sentito dire qualcosa riguardo a lui. Ma, non credo che il figlio sia come lui. Che ne pensi?-. Lo so, è da codardi non averle detto la verità, ma era l'unica ragazza che era rimasta nella stessa stanza dove ero presente io per più di dieci minuti. -Non lo so, sai come si dice: la mela non cade mai lontano dall'albero. Ma non spetta a me decidere il destino di quel ragazzo, ne riceverà di tutti i colori da quelli dell'ultimo anno-. Cercai di ricambiare la sua risata, ma stavo già immaginando la mia testa nel water e gli altri che filmavano. -Sam comunque dice che ha visto di sfuggita il figlio e che sembra uno malato di mente-. Non mi ero offeso. Ero abituato. Piuttosto sfruttai la situazione. -E il tuo amico Sam lo conosci da tanto?-.-Tanto è dir poco. Andavamo all'asilo insieme. Non lo dire a nessuno, ma sono stata io a consigliarli di iscriversi al corso di informatica. Ha sempre amato la tecnologia.-.-Intendi il corso qua a scuola?- . -Si, esatto. Ci va ogni giorno poco prima che suoni la terza ora e ogni tanto il lunedì mattina. Te lo farò conoscere domani che ne dici?- . -Mi sembra perfetto!-. "Più che perfetto" pensai. -A proposito, SEVEN, non ti ho mai vist...-. -NON SONO STATA IO-. Furono queste le parole che sentimmo avvicinarsi a noi, non facendo continuare la frase a Noah, per fortuna.

La porta si aprì rumorosamente, facendo entrare una ragazza. Si esatto, un'altra ragazza. Non era alta come Davis,portava una frangetta, di cui una ciocca era colorata di azzurro, e aveva gli occhi grigi. Da paura. Si scollò dalla presa dell'uomo, probabilmente un professore, che dopo se ne andò, promettendo di ritornare subito. Sentimmo la campanella, al piano di sopra, avvisare che le lezioni erano cominciate e potemmo udire anche i passi degli studenti. -Benvenuta in detenzione, Hunter, giusto?-chiese allegramente Noah. -Si,e tu Davis, esatto?-. -Colpevole.-rispose.- E tu saresti?- chiese, indicando con un leggero movimento della testa il posto in cui ero seduto. -Emh...-. Mentire ad una ragazza va bene, ma a due nell'arco di pochi minuti, era troppo. -Puoi chiamarlo Seven- rispose la mia nuova amica, affrettandosi ad aggiungere se andava bene che mi chiamasse così. -Certo, nessun problema.-. -Che razza di nome è Seven?- mi chiese, prendendo una sedia e mettendola al contrario per poi sedersi. Mise le braccia sulle schienale, aspettando una mia risposta. -E' complicato- dissi soltanto. -Mai quanto la tua faccia Seven!-.-Almeno i miei capelli sono naturali.- Esattamente gente. Seven Nickson aveva risposto. Ma a differenza di qualsiasi ragazzo normale, quella ragazza continuò a fissarmi, facendo intravedere un sorriso curioso. Mi sentivo sotto esame, dove tanti occhi ti scrutano per individuarti. -Sono Emily. Sai, i miei genitori mi hanno dato un nome vero!.-.-In realtà è un soprannome il suo- rispose prima di me Noah. -Già.- Si limitò a commentare Emily. Si avvicinò ancora di più a me, portando la sua faccia esattamente di fronte alla mia. Mi sfiorò con il dito le labbra. Non per dire, ma la gente normale non viene a toccarti le labbra. Deglutii, facendole capire che quella situazione non era normale per me. Si rimise dritta, per poi venire al mio orecchio e sussurrarmi -Fai attenzione. Potrebbe scoprire la tua vera identità da un momento all'altro-. Mi fece l'occhiolino e si rimise a sedere. Come l'aveva capito? -Dunque, dovremmo pur fare qualcosa si.- disse entusiasta, aprendo le braccia e sorridendo a entrambi. Capii subito una cosa: Emily non era come Noah.

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