III "NON SVEGLIARTI PIÙ" HUNTER

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Era l'unica cosa che desideravo. Non svegliarmi più. Pochi minuti prima che l'orribile suono del telefono mi costringeva ad alzarmi, i miei occhi facevano fatica a non aprirsi. Succede questo quando non hai sonno, ma vuoi continuare a sognare, sperando che la tua mente cada di nuovo in uno stato di riposo mentale. Come vorrei avere quel riposo per l'eternità. E invece no. Sono costretta ogni giorno, in una buona parte della mia vita, a svegliarmi e "prepararmi per il mio futuro". E chi mi promette che avrò un futuro? Wow, ora so alla perfezione la seconda guerra persiana, posso dire che ho capito tutto dell'esistenza, giusto? Sbagliato! La-vita-fa-schifo. Almeno è quello che penso della mia. Non voglio certo andare in giro a dire "ehi forse non lo sapete ma la vostra vita è una merda". Potrei, ma non voglio. Ed eccola là, la mia amata sveglia mattutina. La bloccai, prima che si mettesse a far un baccano nella stanza. Mi alzai dal letto con un leggero scatto, andando verso il bagno con i piedi scalzi. I miei dormivano e mia sorella era avvolta nella coperta della sua camera. Facile per lei, non deve mica alzarsi alle 6 ogni mattina. Capí che mi toccava anche questa volta, come ormai da 5 anni, fare tutto da sola. Andai in cucina, dopo essermi vestita. C'erano bottiglie di birra ovunque. Che schifo! Ci sarebbero voluti giorni a mandare via quell'odore sgradevole e forte. Non avevo tempo per fare qualsiasi altra cosa, se non uscire e incamminarmi velocemente verso la fermata dell'autobus. Misi ad alto volume la musica, auricolari alle orecchie, mani dentro la felpa e me ne andai.

Se c'era una cosa che odiavo, era la gente che mi fissava. Per tutto il tratto fino a scuola, una signora con una busta piena di vestiti, non toglieva di dosso il suo sguardo su di me. Cos'era? La mia frangetta? Il ciuffo tinto di blu? O semplicemente la noia di stare lì seduta ad aspettare la propria fermata? Avevo così tanto da dire alla gente, ma non avevo un briciolo di coraggio neanche di dire a me stessa "ciao". Mi era cominciata a pulsare la testa. Capita, quando inizio a pensare troppo. Vidi che la prossima fermata era la mia, mi misi davanti alla porta e salutai la gentile signora che continuava ad osservarmi nonostante fossi scesa. Vidi partire l'autobus che svanì subito dopo la prima curva. Avrei voluto rimanere là. Magari mi avrebbe portato in un posto migliore.

-Se provi solo a toccarmi, ti spezzo la gamba Alice.-. Credeva davvero che non l'avessi vista, ma ero abituata a vedere con la coda dell'occhio, soprattutto quando mia madre veniva in camera mia la notte a controllare se ero viva, purtroppo. Non é di certo colpa mia se mi odiava. Dopotutto, era stata proprio lei a mettermi al mondo. Comunque, avevo già intravisto Alice da un bel pezzo, e sapevo, come era suo solito, che mi avrebbe fatto spaventare da dietro le spalle. Conoscevo Alice da poco più di un anno, quando entrammo tutti e due alla Brennan, e ci fecero fare il solito giro della scuola. Ricordo che commentò con sarcasmo il fatto che c'erano molti libri in biblioteca, e scoppiai a ridere davanti a lei. Da quel momento in poi non ci separammo più, eravamo legate. Forse anche troppo. - Devi ancora spiegarmi perché il tuo abbigliamento consiste sempre in questo giubbotto di jeans strappato! Non ti sei stufata di indossarlo ogni giorno? - mi chiese, portandosi al mio passo. In effetti era più di un anno che mettevo sempre il mio giubbotto, anche se cominciava ad andarmi stretto. Forse il fatto che è stata la prima cosa che ho "preso senza permesso" da un negozio. - Dopo 2 mesi che non ci vediamo, è la prima cosa che ti viene in mente? -. - E tu dopo 2 mesi sei ancora così acida? -. Aveva ragione, però. Parlavo con la gente, ma avrei preferito trovarmi da sola in un'isola sperduta nell'oceano piuttosto che sprecare fiato per dire parole inutili come "va tutto bene" o "sto bene". Primo, non era vero, secondo, non interessava a nessuno se stavo bene. Erano le solite frasi che la gente ti chiede quando t'incontra per caso per strada. -Vedo che porti le trecce ora - notai - ti stanno malissimo, sappilo - La rassicurai.  -La solita simpaticona. È stata mia cugina a farmele quando siamo andati alla casa al mare. Ti saluta mia madre, a proposito- Se c'era una persona che mi trattava bene disinteressatamente, quella era la madre di Alice. Era una donna particolare: portava sempre una lunga vestaglia colorata e i capelli ricci legati. Per non parlare della sua specialità. I dolci. La famiglia le aveva spesso detto di partecipare a delle gare o addirittura di aprire una propria pasticceria, ma rispondeva sempre che era solo una passione la sua. Era lei che ha preparato la torta al ballo dell'anno scorso. Credevo che dipendesse dal fatto che suo marito, il padre di Alice, non era quasi mai a casa per lavoro, ed Abigail si dilettava così a far felici i suoi figli creando dolci straordinari. E poi aveva anche un nome fantastico. -Come è andata l'estate a te?- mi chiese Alice, vedendo che non aprivo bocca da un bel po'. -Come tutti gli altri anni. Casa.-.- Ehi sei tu quella che non ha accettato il mio invito al campo estivo. Ci saremmo divertite un sacco, Emily!-.-Che schifo! Non pronunciare mai più quel nome-.

Arrivati a scuola ci separammo, e finalmente potei entrare nell'unico posto della scuola dove mi sento bene: l'aula di arte. Pochissime persone, ovvero Alice e la mia professoressa, sapevano della mia "dote". L'anno scorso la signorina Agadez mi aveva trovato da sola nell'aula a dipingere ciò che potevo vedere dalla finestra. E subito mi iscrisse alla mostra scolastica delle opere degli studenti. Ma i miei non vennero, e decisi di vendere il mio quadro la sera stessa. "E' un peccato che ti sia già arresa" mi disse la professoressa. E invece, a sua insaputa, continuavo a dipingere durante l'ora di pranzo o il pomeriggio. Peccato che a volte il professor Tonkh, supplente ormai da anni alla Brennan, entrava spesso nell'aula e quindi, era un bel po' che non entravo là dentro. Anche se sapevo che se la Agadez mi avesse vista dipingere sarebbe andata su tutte le furie. Era una donna molto sensibile e credere che le stessi nascondendo tutto perchè non volevo lei come insegnate, le avrebbe spezzato il cuore. C'era ancora la scritta dell'anno scorso dipinta sul muro "believe in souls". Anche se non sembrava, amavo questo genere di frasi, nonostante non dicevo mai cose dolci. Mi avvicinai al muro e mi ricordai tutti i pomeriggi passati a metterci impegno, per una cosa che neanche sarebbe servita. Mi resi troppo tardi che le mie scarpe erano diventate verdi e blu. Il che non è normale, visto che ero abbastanza sicura che fossero bianche quando le ho comprate. I barattoli di vernice fresca che qualche decerebrato aveva lasciato aperti, rovesciati dalla sottoscritta, avevano trascinato il loro colore per tutta la stanza, facendola diventare un'isola di unicorni. Vi spiego una cosa: tutti i bambini nascono con due occhi, un naso, una bocca e tutte quelle altre cose che ognuno ha bisogno per vivere. Ecco, per prima cosa io sono nata con la SFORTUNA. E quando dico sfortuna, intendo che sono anche nata uscendo con i piedi. Quindi, come era normale che fosse dopo una vita di sfiga e iella, fu proprio in quel momento, senza che avessi neanche il tempo per capire cosa fosse successo e come potessi risolvere quella situazione, che entrò in classe il professor Tonkh, con i suoi occhiali più grandi di lui e la barba leggermente più corta dell'anno precedente. -Signorina Hunter! Sapevo che era lei a venire qui dentro senza permesso!- Esordì con aria trionfante.-Professor Tonkh, non sono stata io ad apri...-.-Niente scuse. Hai finito di venire qui, Hunter ! Puoi anche sognarti di passarla liscia. Vieni con me, ora-. -Ma signore, glielo giuro...- troppo tardi, era già uscito, ed ero costretta a seguirlo. -Mi scusi ma dove stiamo andando? Devo tornare in classe.- . - Esatto, passerai tutta la giornata in detenzione. Avrà compagnia, stia tranquilla. Ho sentito che hanno già mandato 2 ragazzi.-. "NO. LA DETENZIONE NO." Avrei voluto strapparmi dalla sua presa e scappare, ma sarebbe stato ancora più pericoloso poi. Scendemmo le scale che portavano nell'auditorium, dove le classi si riunivano. Non era grande, ma poteva ospitare molte persone. Era un po' che nessuno ci andava però, e, a quanto pare, l'avevano cambiata. Ora c'erano tavoli sparsi ovunque e avevano collocato alcuni scaffali con alcuni libri. Le uniche persone presenti nella stanza eravamo io, il professore, e due ragazzi seduti lontani l'uno dall'altra. Conoscevo Noah, veniva al mio corso di chimica l'anno scorso, ma non ci avevo mai parlato. A differenza di lei, non avevo riconosciuto subito quel ragazzo. Insomma, si nota subito uno come quello. -Ritorno più tardi. Fate in modo di tenere chiusa quella boccaccia.- E se ne andò, lasciandomi in piedi davanti a loro.

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