Capitolo 2

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Sei e mezza del mattino, la sveglia suonò e, come quando ero bambino, facevo i capricci quasi come se mi stesse svegliando mia madre.
-Ancora cinque minuti. - ripetevo, pur sapendo che la stanza fosse vuota, e credo mi somigliasse.
Il trillo incessante di quella fottuta sveglia, invece, mi costringeva ad alzarmi dal letto. Simpatica lei, "SCUOLA", c'era scritto a caratteri cubitali sul display del mio cellulare, bel modo di ricordarmi che avrei avuto un'altra pessima giornata.
La mia camera aveva le pareti azzurre, come il mare, non so perché scelsi quel colore, forse perché avrei voluto rappresentare tutto ciò che non ero mai stato: immenso, vivo, profondo, qualcosa che facesse rimanere a bocca aperta, tutto il contrario di me, insomma.
Ero un ragazzo timido, e non parlavo mai con nessuno, in classe non facevano altro che credermi un asociale. A scuola, quelli che si credevano fighi non perdevano mai occasione per prendermi in giro. Forse era pure per questo che mi ero chiuso, era un modo per difendermi da tutta la merda che mi circondava.
La mia scuola era situata in un grande stradone senza uscita, e quasi come un topo che si avvia verso la sua trappola, lo percorsi fino alla fine. Potete immaginare che qui mi si presentò davanti il mio edificio, gigantesco, enorme, con dozzine di finestre che affacciavano sul grande parcheggio, riservato ai professori ovviamente, dicevano fosse un ospedale, prima. Che idiozia, prima era un edificio utilizzato per curare le persone, ed ora addirittura le distruggeva.
Nei corridoi si affollavano sempre decine di ragazzi, e sfruttavano i minuti prima della campanella di entrata per raccontarsi ciò che avevano fatto di esaltante il giorno prima. Le femmine poi, pazze isteriche che sembravano scimmie in calore da quanto si dimenavano, e tutto questo per aver conosciuto un bel ragazzo. Un branco di idioti, ero finito in mezzo ad un branco di idioti, pensavo, inutile dire che mi sentivo un estraneo in mezzo a tutta quella folla.
La scuola per me non era altro che un buon momento per osservare i bei ragazzi, non che i miei rendimenti facessero schifo, ma altro che ginnastica, godermi la vista era il mio sport preferito.
I miei compagni parlottavano tra di loro, e le risate riecheggiavano nelle mie orecchie, sembravano divertirsi. Pensai che, invece, il loro sport preferito fosse lasciarmi da parte coi miei pensieri, ma forse era solo una scusa per non ammettere che fossi io a non aver mai provato a relazionare.
La mia classe aveva le pareti bianche, come il nulla, e le scritte dei miei compagni volevano riempire tutto quel nulla con ciò che non riuscivano a riempire nemmeno con le loro risate, le scritte a caratteri cubitali.
Le ore rinchiuso in quella che per me era una prigione passarono abbastanza in fretta, quel giorno, forse perché la prof. di matematica ebbe la brillante idea di assentarsi.
La campanella suonò, era il suono della libertà, un po' come quando alzano le sbarre del cancello per lasciarti passare, e tu non vedi l'ora di essere libero. Ed ecco che mi si presenta davanti di nuovo lo stradone, stavolta percorso al contrario, stavolta il fondo era aperto, e rappresentava la vittoria.
Il bus tardò, come al solito, e tornai in ritardo a casa, i miei avevano già finito di pranzare, così approfittai dell'occasione per saltare ciò che per me sarebbe solo stato come saltare giù da cento metri di altezza senza paracadute. Mi rinchiusi nel mio rifugio, e per prima cosa, come ogni volta, buttai lo zaino sul pavimento, poi accesi il computer. Prima di catapultarmi sul letto mi tolsi le scarpe, in segno di liberazione. Il computer era accanto a me e segnava una nuova mail.
- Sarà una delle solite ragazzine. - pensai, e con disinteresse mi voltai di schiena.
- Ci penserò più tardi, ora ho bisogno di riposare. - continuai, e chiusi gli occhi spensierato, fino a cadere in un sonno che non mi avrebbe fatto pensare a quanto schifo facesse il mondo.

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