Capitolo 12

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Quando le sue labbra si staccarono dalle mie, e le sue braccia lasciarono il mio corpo, mi sentii solo per un secondo, ma percepii le sue dita stringere le mie, e improvvisamente fui nuovamente pieno. Dentro me non c'era solo il mare adesso, ma la sabbia e pure gli scogli, il quadro perfetto che tutti immaginano. Il mare sbatte con le sue onde contro gli scogli, levigandoli, cambiandoli, e lo stesso stava facendo lui con me.
Lui era il mio mare, io i suoi scogli.
Fissai i suoi occhi scuri, che non avevano in mente di staccarsi da me un secondo.
- Vieni con me. - gli dissi, tirandolo per un braccio.
- Dove andiamo? - mi chiese perplesso.
- Ti porto dove si può volare, perché lì non c'è nessuno a farti cadere. -
Un sorriso si dipinse sulle sue labbra, quelle labbra rosse e morbide, quelle labbra che amavo tanto baciare.
Lo portai al parco abbandonato, dove riuscivo a sentirmi libero, dove riuscivo ad entrare lasciando i miei pensieri ad aspettarmi al cancello. Solo essendo più leggeri si poteva riuscire a spiccare il volo, e lì potevo alleggerire il mio bagaglio mentale.
Varcammo il cancello arrugginito, che ad aprirlo fece lo stesso rumore assordante di sempre, era tanto assordante che Luke si coprì le orecchie con i palmi delle mani.
Era bellissimo pensai, col suo viso da bambino timoroso, che aveva paura di qualsiasi rumore.
Lo fissai, e i suoi occhi incontrarono di nuovo i miei, la sua mano era stretta ancora alla mia, e mi sentivo incapace di cadere, niente mi avrebbe ridotto in macerie, adesso.
Se fossi caduto in un dirupo mi sarei stretto più forte alle sue dita, che mi avrebbero tirato sicuramente su, perché era un ragazzo forte, lui, molto più forte di me.
- Ecco dove vengo a rifugiarmi ogni volta che non riesco a trovare un posto per stare da solo, senza i miei pensieri. - gli confessai, indicando con la mano il parco abbandonato.
Sempre lo stesso, sempre gli stessi alberi spogliati dall'inverno, sempre la stessa erba ormai non più verde, sempre gli stessi ammassi di pietre sgretolate, e gli stessi lampioni dalla luce fioca. Gli unici a non essere gli stessi lì eravamo noi, di solito c'ero solo io, adesso c'eravamo io e lui.
- E perché lo stai dicendo proprio a me? - chiese col sorriso sulle labbra.
- Perché adesso è anche il tuo posto. - ammisi.
- Non ho mai avuto un posto tutto mio. - disse.
- Ma infatti non dicevo che sarebbe stato tutto tuo, lo condividerai con me. -
- Lo condividerò con te? -
- Si. - risposi - A patto che ogni volta mi abbraccerai e resterai in silenzio con me, mentre ci perderemo a guardare il cielo, uno nelle braccia dell'altro. -
Sorrise, un sorriso che valeva più di mille parole.
Vidi in lontananza la panchina su cui ero steso quando ricevetti il suo messaggio, era ancora lì, era sempre lì, niente cambiava mai lì. Era per questo che mi piaceva il parco abbandonato, era per questo che lo sentivo mio, potevi lasciare una rosa in mezzo all'erba secca e ritrovarla lì il giorno dopo, il mese dopo, e anche l'anno dopo, quasi come se lì dentro il tempo si fermasse. Forse per questo motivo avevo portato Luke nel parco abbandonato, avrei voluto che quei momenti continuassero per sempre, avrei voluto fermare il tempo per rimanere con lui quanto più possibile.
Ci sdraiammo sulla panchina, o meglio, mi sdraiai io, con la testa sulle sue gambe. La sua mano tra i miei capelli, ad accarezzarli. Le sue dita sul mio collo, a sfiorarlo. I miei occhi nei suoi occhi, ad amarlo.
La sera calò troppo presto, persi nelle nostre braccia, nei nostri respiri, nei nostri silenzi, e nei nostri momenti più belli, e in un attimo fu già tempo di andar via. L'avrei rivisto? Chissà, forse si sarebbe già stancato di me il giorno dopo.

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