– Io sono il numero centotredici, – mi dice la ragazza con l'apparecchio per i denti.
La guardo senza afferrare, ma poi finalmente mi risveglio dal mio torpore, tolgo lo standby, e cerco di capire.
– Cosa hai detto?
– Sì, ho contato tutti quelli che mi stanno davanti, e perciò tu sei il centoquattordici.
«Devo darmi una mossa», penso.
Arrivato in aereo a Salvador, dato che oggi è l'ultimo dell'anno, mi sono recato subito all'imbarcadero per l'isola di Itaparica, dove ho prenotato nella pousada di un amico.
Col pulmino che ho preso all'aeroporto sono arrivato a Praça da Sé, e di lì sono sceso con l'ascensore Lacerda al Mercado Modelo.
E lì mi aspettava la fila sino all'imbarcadero, lunga almeno un chilometro.
I brasiliani sono degli ottimi utenti di code: ci sono abituati, loro, e sono pazienti e ordinati oltre ogni aspettativa, rispettosi delle precedenze e tolleranti se qualcuno si deve allontanare per un poco.
«Farò come loro», ho pensato, sistemando a terra la mia valigia-zaino da venti chili, certificati in aeroporto.
Così ho registrato in automatico, senza reagire, il caldo sempre più opprimente, la fila serpeggiante da un lato all'altro della strada alla ricerca di qualche spicchio di ombra, i venditori d'acqua e di piccoli ghiaccioli senza stecco che si squagliano non appena li fai uscire dal cellofan.
Ma ora devo darmi una mossa, perché il rischio è quello di passare qui, in coda, la fine dell'anno.
Tolgo il pilota automatico e do finalmente ascolto alla ragazza con l'apparecchio per raddrizzare i denti.
– Guarda che se vuoi, per trenta reais, c'è un battello, dall'altra parte del porto, che sta per salpare, – mi dice.
– E perché la gente non prende quello? – chiedo.
– Forse non hai capito: trenta reais invece di dieci. E poi, se c'è una cosa che non manca, qui, è il tempo.
Così, dopo poco, mi ritrovo in un piccolo battello, e dopo un'ora, sbarcato a Itaparica, salgo su un pulmino Volkswagen Kombi in cui, disponendole su più strati, l'autista riesce a far entrare sedici persone, e dove sperimento lo spirito collaborativo del luogo. Infatti, la mia valigia viene usata come sedile per il mio vicino, e io ospito un bimbo di due anni che dopo aver a lungo passeggiato su di me ha deciso di accomodarsi stabilmente sul mio ginocchio destro.
Infine, eccomi qui, in un paesino chiamato Tairú, in attesa della festa dell'ultimo dell'anno, seduto su un gradino che dà sulla strada; perché, esclusa la spiaggia, nel paese non c'è niente di niente, a parte una piccola piazza attraversata dalla statale, qualche bar e uno scassatissimo punto Internet. Nel frattempo è arrivata un'auto con lo stereo a tutto volume, e quando il guidatore apre il baule, vedo che è interamente occupato dagli altoparlanti (ne conto quattro enormi, più sette o otto più piccoli) e immediatamente la musica si espande in tutto il paese, come uno tsunami sonoro, inondandolo di musica martellante, ossessiva e trascinante. Ai lati della piazza si schierano subito due gruppi, con le ragazze che, mettendosi allineate alla strada, improvvisano delle coreografie, abbassando e oscillando il bacino, lentamente, ritmicamente, con un movimento che odora sia di atto sessuale che di danza tribale.
Quei ragazzi, che niente sanno né di tratta degli schiavi né di riti antichi – che mescolavano sesso, musica e religione –, ballano, probabilmente senza saperlo, l'antico Candomblé di origine africana.
Anche la donna seduta vicino al mio tavolo si lascia coinvolgere e inizia a ballare, senza per questo abbandonare il bimbo di un anno che tiene in braccio, il quale, nonostante i sobbalzi ritmici e il rumore, continua a dormire. Dorme, apparentemente; ma in realtà sta assorbendo tutto: quegli scossoni, quell'odore acre del sudore di sua madre, quel ritmo sensuale e quei movimenti frenetici.
Tutte cose che, lui non lo sa, gli resteranno dentro per sempre.
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Ah, viaggiare...
General FictionRacconti di viaggio. Storie vere e storie inventate. Storie vissute in prima persona o raccolte per strada, e sopratutto, storie di incontri.