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Ho capito che dovevo fare qualcosa nel cesso del bus. Niente da dire, per carità: comodo quanto basta, le maniglie per trattenermi quando l'autista frena, carta in quantità, e quando tiro lo sciacquone anche acqua in quantità. Il fatto che mi preoccupa è che, invece di cogliere l'umiliazione del momento, sento solo sollievo e compiacimento per come è andata alla grande, per come sto bene ora. Non uscirei più di qui. Ma da quand'è che va avanti 'sta faccenda? Almeno una settimana, mi rispondo.
Così, scendendo a Ouro Preto, chiese e case sparse nel verde a mille e duecento metri sul mare, prima ancora della pousada cerco una guardia medica.
Avevo imparato la parola giusta, e all'addetto delle informazioni turistiche, che mi voleva raccomandare la pousada del cugino, chiedo invece dov'è il più vicino ponto de saùde.
Ce n'è uno pubblico, cioè gratis, a un chilometro, e una privato a trecento metri.
Ma poi, dopo i trecento metri in salita, l'accettazione non vuole saperne di me: il mal di pancia non è una malattia che richieda specialisti, e allora col taxi vado al pronto soccorso.
Il medico pubblico è gentilissimo. Ha il nonno italiano, di Salerno, e vuole sapere tutto, ma proprio tutto: da dove vengo, per che squadra tengo, che itinerario faccio, e anche se è vero che a Berlusconi piacciono as putas.
Alla fine si dedica anche al mio problema.
– Non è grave, – dice, – in questo periodo di grande calore e umidità è pieno di gente con i suoi problemi.
«Allora», penso, «mi è andata bene che per il bagno dell'autobus non ci fosse la coda».
– E quella ragazza che era in fila prima di lei, sì, quella carina, aveva anche lei lo stesso problema, – dice alla faccia della privacy.
E mi dà la cura: semplice, ma – come vedrò poi – efficace.
– Ma prima deve idratarsi, le faccio un paio di flebo, – aggiunge.
– Ma quanto ci vuole? – chiedo tentando una difesa.
– Cinquanta minuti ed è a posto. Ta bom? – che credo voglia dire «ok».
– Ta bom, – dico anch'io.
Sdraiato vicino a me c'è un ragazzo che si è sentito male al lavoro.
«Sarà per il caldo», penso io. Fa per alzarsi, ma subito inizia a vomitare, a più riprese.
Dopo due ore, nessuno sembra ricordarsi di me. Tento di difendermi alzando al massimo il volume dell'iPod, ma l'odore dello stanzone ha la meglio su Ivete Sangalo & C., così decido che grazie, ma è ora di andarmene. Il più delicatamente possibile, sfilo l'ago dalla vena, tampono il braccio con il fazzoletto, infilo lo zaino, ed esco fischiettando.
La città è tutta un saliscendi, ma io vado quasi di corsa: se mi sbrigo riesco ancora a trovare quel tipo delle informazioni che ha un cugino con una bellissima pousada.