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La scelta del bar non è particolarmente difficile: ce ne sono due, e sto valutando se mettermi in quello con i tavolini che danno sulla piazza quando, lì seduta, vedo una ragazza, piccola, capelli a treccine e abbigliamento vagamente hippy, che mi sembra di conoscere già.
– Scusa, sei per caso italiana? – dico a mezza voce, senza guardarla, sicuro che in caso contrario la ragazza non capirebbe neanche che la domanda è diretta a lei.
Si volta e mi guarda ravviandosi nervosamente le treccine.
– Sì, perché? – e in quel momento, sentendo la sua cadenza sicula, realizzo contemporaneamente che:
a) è proprio lei;
b) lei chi? Perché non mi ricordo il suo nome.
Allora le dico:
– Noi siamo amici; cioè... voglio dire «amici» su Facebook. Mi chiamo Paolo, ti ricordi?
Dal sorriso largo che si affaccia sul suo viso direi di sì.
– Certo, sono Manuela. Sì, ricordo le foto che hai messo online.
«Ecco», penso, «questa ragazza l'ho conosciuta di persona un paio di anni fa, non lontano da qui. Siamo stati a parlare tutto un pomeriggio, e lei mi ha raccontato la sua storia, fatto visitare casa sua, giocare con suo figlio... E adesso, tutto quello che ricorda sono le foto che ho messo su Facebook. La vita perde due a zero, contro la realtà virtuale».
Io, invece, tranne il nome, di lei mi ricordo proprio tutto.
Appena compiuti i diciott'anni, seguendo le orme dello zio, che è qui da sempre, è venuta in Brasile. Ricordo casa sua, in una stradina fangosa di un sobborgo dimenticato dal mondo, dove abitava in due stanze arredate solo da un vecchio tavolo scrostato, da un divano letto sfasciato e, sparse ovunque, come unico ornamento, decine di orribili tele naif di stile bahiano dipinte da lei.
Più tardi, tornato in Italia, l'ho contattata su Facebook e ogni tanto ci siamo sentiti.
Sorseggiando un succo di mango e mandarino le chiedo se abita ancora lì.
– No, ora sto a Salvador, sopra al Pelourinho.
Il Pelourinho è il quartiere più variopinto e affascinante di Salvador, e ho presente il posto perché ricordo che una volta, per fare delle foto meno turistiche del solito, ho provato a imboccare una stradina che avvitandosi su per la collina va in quella direzione, quando sono stato fermato da un passante che mi ha avvertito che in quel luogo era assolutamente sconsigliato inoltrarsi.
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Sì, così come mi ricordo anche molto bene della pousada di suo zio, di cui mi è rimasto impresso il cuoco – un travestito di mezza età, si chiamava Gal –, che oltre a rubare le birre che i pochi clienti depositavano in frigo si distingueva per la tutina di lamé dorato con cui, finito il lavoro, faceva il giro di tutti i locali dell'isola.
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– Lavora ancora lì? – le chiedo.
– Certo, è uno di famiglia, soprattutto per me, – e ride nervosamente, ravviandosi nuovamente i capelli, che dal canto loro non ne avrebbero nessun bisogno.
– Sai... lui è mio marito.
– Stai scherzando!?
– No, davvero, avevo un problema, un problema grosso, e lui me l'ha risolto.
E mi spiega che poco dopo essere arrivata in Brasile non sapeva come rinnovare il permesso di soggiorno; e, dato che non aveva nessuna intenzione di tornare in Sicilia, ha cercato qualcuno da sposare per ottenere il permesso permanente.
È quello che normalmente fanno la ragazze brasiliane che sposano gli italiani per venire a stare da noi; e così lei, facendo il percorso inverso, ha pensato a Gal.
– Gli abbiamo comprato giacca e pantaloni, che lui non aveva mai avuto, delle scarpe, che gli abbiamo infilato a forza, al posto degli infradito, e siamo andati in prefettura. Ma prima abbiamo dovuto perdere un giorno per fare le prove; perché, anche se fasullo, il matrimonio doveva sembrare vero. Il problema era che Gal, quando camminava, non riusciva a smettere di sculettare. Alla fine abbiamo risolto portandolo in auto proprio davanti alla porta della prefettura, mimetizzandolo alla bell'e meglio nel casino fatto appositamente dagli amici che gli giravano intorno, cercando così di distrarre il prefetto.
– E com'è andata?
– Alla grande! L'unico problema è stato che la mattina abbiamo dovuto recuperare mio «marito» sulla spiaggia, ubriaco fradicio dopo la notte di festeggiamenti e abbracciato a un amico.
Ridiamo e parliamo a lungo. Lei smette di ravviarsi in continuazione i capelli e io di parlare a raffica, alla ricerca di allegria a buon mercato, e mi ritrovo in uno di quei momenti in cui i silenzi sembrano più importanti delle parole.
È il silenzio che ti permette di ascoltare la vita attorno: non solo i rumori lontani, ma anche gli odori più sottili e le vibrazioni di chi ti sta vicino. Ed è sempre il silenzio che ti fa apprezzare l'incanto di non essere solo in un momento speciale, come quello.
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Ed è così, in silenzio, senza aggiungere neppure una parola, che ci baciamo. A mezzanotte, poi, ci mettiamo seduti sulla spiaggia, a guardare i bagliori dei fuochi lontani che arrivano da Salvador, appena sopra la linea scura del mare, e dopo esserci tuffati insieme agli altri nell'acqua tiepida punteggiata di bicchieri di plastica – che, ancora saturi di birra, dondolano a pelo d'acqua – penso che questa vita, in fondo, non è poi così assurda.
Mi accorgo allora che Manuela, che vedo ora come se fosse la prima volta, ha un sorriso largo con denti bianchissimi che risaltano sul volto abbronzato. E visto che me lo ha appena chiesto, decido che... perché no? per un po' proverò anch'io il brivido di abitare sopra al Pelourinho, in una casa arrampicata sopra il golfo, e piena di orribili quadri naif.