Prologo

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Otto anni prima...

Freddo gelido, vento furioso.
Li sento che penetrano nelle mie ossa, espellendo e uccidendo quel poco di calore che c'è in me.
Ho i piedi insensibili, batto i denti ed ogni estremità è avvizzita.
Per non parlare della fame che mi attanaglia; sono giorni che non mangio. Non sono morta di sete solo grazie alla neve. L'ho messa in bocca ed ho aspettato si sciogliesse, per bere.

Le forze mi stanno abbandonando, per cui mi siedo sul ciglio della strada, stringendo il giubbotto e sollevando le ginocchia, nella speranza di riscaldarmi. Anche se so che è difficile, la temperatura è bruscamente calata sotto lo zero e ha cominciato a nevicare di nuovo.
I piccoli fiocchi bianchi cadono con regolare cadenza.
Una sferzata ventosa mi fa rabbrividire ancora di più; soprattutto avendo gli abiti zuppi e gelati.
Sento la febbre che sale, sono giorni che girovago sotto le intemperie.

Vedo come un miraggio il cartellone: Benvenuti a Mystic Falls, Virginia.
Vorrei avere le forze per oltrepassare quel confine e giungere alla prima abitazione che trovo.
Ma non ne ho, e questo è quanto.
Forse è arrivato il momento di fare un pisolino. Solo per ricaricare le batterie.
Solo pochi minuti. Sento gli occhi che si chiudono, le orecchie che ronzano.
Solo qualche momento, sono così stanca.
Soltanto...

«Apri gli occhi, dannazione!»
Sento qualcosa di caldo che mi preme il petto. Una voce forte, baritonale, che mi sprona a svegliarmi.
Arranco ma ci riesco. Sbatto le palpebre; ho difficoltà nel mettere a fuoco, ma riesco a distinguere l'ombra di un corpo chino su di me.
«Resta sveglia, ti porto via» mi dice.
«Chi... Chi sei tu?» Quasi mi spavento della mia voce. È gracchiante e cavernosa. Un accesso di tosse mi colpisce, facendomi piegare in due.
Lui mi batte sulla schiena, tenendo con l'altra mano i capelli, di modo che non mi si attacchino al viso.
Deve essere uscito di casa, o dalla macchina, da poco; è bollente, grazie al riscaldamento.
La tosse finalmente si placa.
«Se non ti porto via, la polmonite peggiorerà» dice più a se stesso che a me.
«S-sei un m-medico?» Domando, battendo i denti.
«Non è importante adesso. Avanti, andiamo via» mi prende in braccio, schiacciandomi al suo torace.
Sento il calore che scaccia il gelo.
«Come ti chiami?» Voglio sapere il suo nome, il nome del mio eroe.
«Niklaus, ma puoi chiamarmi Klaus, o Nik
Un nome particolare, ma gli dona.
«Io... Io mi chiamo Queen» riesco con fatica a presentarmi.
«Beh, a quanto pare era destino» questa volta so per certo che sta parlando con se stesso.
Un attimo dopo sono seduta su un comodo sedile, in un abitacolo riscaldato.
L'altra portiera si apre e lui prende posto.
«Adesso passeremo il confine. Ti porterò da un amico di lunga data. Ti curerà e poi... Andremo via, lontani da tutto. Dall'orrore, dalla crudeltà e dalla solitudine. Va bene?»
Capisco subito, lui è come me: solo, triste, un reietto.
«Sì» è la mia sola risposta, ma a quanto pare gli basta.
Preme il piede sul pedale, varca il confine e mi porta in salvo...

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